martedì 30 agosto 2016
Plini - Handmade Cities (2016)
Handmade Cities è il primo vero e proprio full length che Plini pubblica nei suoi tre anni di carriera, anche se per dirla tutta la durata dell'album non sfora i 34 minuti e, dopo aver avuto nei precedenti EP una miriade di ospiti più o meno noti dell'ambiente progressive e fusion, la band si è stabilizzata a trio con l'apporto di Simon Grove degli Helix Nebula al basso e Troy Wright alla batteria.
Della nuova generazione di guitar heroes 2.0, meglio descritti come "from my cameretta and beyond", l'australiano Plini è colui di cui non ho mai parlato in modo approfondito su altprogcore. Non perché il suo effettivo e precoce talento mi fosse sfuggito ma in realtà, tra la schiera di giovani virtuosi della sei (e sette) corde, è quello che mi sembra idealmente il più pulitino e perfettino, le sue musiche proseguono diritte su binari confortevoli e sicuri, senza mai prendersi un rischio reale deviando su tracciati di ricerca. Eppure, la manciata di EP prodotta da lui sinora rimane saldamente tra i best seller di Bandcamp nel reparto jazz e fusion. Partito come un progetto solista, Plini è esponenzialmente cresciuto, costruendosi una reputazione che quest'anno gli ha permesso di affiancarsi ad un tour stellare (che ha fatto tappa anche in Italia) insieme a Intervals e Animals As Leaders. Prova ulteriore che io ho torto e gli altri hanno ragione.
Prendete quest'ultimo Handmade Cities: era da tempo che non mi capitava di ascoltare un album chitarristico/strumentale così accattivante, così scorrevole e pacifico da sfiorare la muzak. Il modo di intendere il djent di Plini è infatti maggiormente affine più ad un orientamento mainstream, come può essere quello dei Polyphia, che non alle ingerenze ambient sviluppate dai TesseracT e DispersE o alle mitragliate metalliche esplose dai Periphery. Un pezzo tipo Inhale si presta molto bene come prototipo ipotetico, dove le parti aggressive sono subordinate a passaggi eterei e funk densi di tastiere e chitarre che ricreano tappeti new age. Il metodo di scrittura talvolta utilizza espedienti basilari con risultati altalenanti: mentre gli assoli della title-track si cullano in uno sviluppo monotematico impostato sul dittico quiet/loud che lascia un senso di irrisolto, l'ottima Pastures, dopo un'introduzione prog di due minuti, si concentra su un reiterato giro arpeggiato sul quale il trio prima edifica un crescendo e, una volta raggiunto l'apice, il tutto viene attenuato.
La cosa comunque interessante di Handmade Cities, non del tutto sviscerata negli EP, va ricondotta al fatto di come Plini pieghi l'elettronica in una prospettiva retrò che guarda al sound di fine anni '80/inizio anni '90, accostandolo così a quei virtuosi come Steve Vai e Joe Satriani. Un retaggio che mi pare totalmente assente rispetto ai colleghi all'interno del djent, i quali si presentano in perfetta sintonia con il metal contemporaneo. Così, nelle pieghe prog fusion di Electric Sunrise e Every Piece Matters, convivono frammenti di Pat Metheny e Cynic e quelle di Cascade rispecchiano un avvicinamento al progressive metal dei Dream Theater grazie a passaggi epici e sinfonici mutuati dall'aggiunta di tastiere.
www.plini.co
domenica 28 agosto 2016
Twelve Foot Ninja - Outlier (2016)
Dall'uscita del primo album Silent Machine, gli australiani Twelve Foot Ninja sono riusciti a farsi conoscere in poco tempo da una discreta fascia alta di pubblico anche al di fuori della propria terra natia, collezionando svariati tour (passando pure per l'Europa) sia come spalla a gruppi di maggior fama sia come headliner. Dai due singoli usciti in anteprima, One Hand Killing e Invincible, mi aspettavo una replica sbiadita e più o meno invariata di Silent Machine e invece Outlier ha fortunatamente smentito le mie previsioni. Nessuna rivoluzione siderale, ben inteso, però i Twelve Foot Ninja hanno portato bene a termine lo sporco, rischioso e ingombrante lavoro della fatidica opera seconda, anche se ci sono voluti quattro anni di lavoro.
Cos'è che differenziava fin dal principio il metal dei quintetto australiano rispetto alla formula di altri colleghi? La peculiarità di Silent Machine risiedeva negli arrangiamenti che, contando anche su una buona dose di ironia, trasportavano nel genere nu metal tante piccole variazioni stilistiche come funk, dub, fusion, arie latinoamericane, disco e dance. Un'impresa ardua sulla carta senza il rischio di cadere nel ridicolo, ma la formula ha funzionato anche grazie al fatto di aver costruito un concept attorno alla band, sfociando nella cultura pop grazie a citazioni da fumetti manga e mitologia eroica declinate verso il parossismo parodico.
Arrivando a parlare di Outlier, in questo caso i Twelve Foot Ninja non hanno proprio optato per frammentare ogni brano con qualsiasi sorta di variazione come succedeva su Silent Machine, ma a caratterizzarlo unicamente con qualche accenno ad un determinato genere e proseguire in prevalenza con massicce dosi di djent e nu metal. Se One Hand Killing è spezzata con un breve bridge funk disco e Oxygen procede con accenni a ritmiche ska e progressioni lounge jazz, altri pezzi come Sick, Collateral e Dig for Bones rotolano come macigni dritti per la loro strada djent/metal, mentre Invincible rimane il pezzo più diretto e con minore appeal nel descrivere la reale personalità dell'album. Ma, anche se si parla di musica con un impatto considerevolmente pesante, grazie a piccoli indizi sottotraccia di progressioni armoniche inconsuete, si intuisce che il quintetto di Melbourne sa maneggiare un ampio raggio musicale a partire dalla fusion (tant'è che le evoluzioni strumentali e ritmiche rimangono a livelli notevoli).
Un misto tra Korn e Fatith No More (un paragone che compare ancora ben saldo su Outlier, soprattutto per la voce del cantante Kin Etik) dove, in questo contesto, la sfida consiste sul quanto si possa spostare la stanghetta della bilancia tra ciclopici e devastanti riff e melodie "catchy" prestate da altri generi. Sfida vinta se si guarda alla fluidità e alla scorrevolezza, anche quando a prevalere sul metal sono le arie spaccate tra ballad funk e smooth jazz di Point of You. Il gusto e il divertimento di scoprire come i Twelve Foot Ninja riescano ad inserire nel flusso sonoro elementi musicali estranei viene sublimato nel "saltarello" indiano di Monsoon e nei rimandi alla Spagna del flamenco di Post Mortem e Adios. Da veri professionisti dell'eclettismo, i cinque si permettono ancora il lusso, su Outlier, di accostare al djent le più improbabili e distanti idee stilistiche con versatilità e, se da una parte l'album mantiene intatta la freschezza che era propria di Silent Machine, dall'altra ci si domanda con velato cinismo come potranno stupirci in futuro i TFN.
http://twelvefootninja.com/
mercoledì 24 agosto 2016
The Woods Brothers - The Woods Brothers (2016)
Il debutto omonimo dei fratelli Chris e Nick Woods, The Woods Brothers appunto, passa attraverso il battesimo di un padre nobile come Casey Crescenzo (The Dear Hunter) che ha prodotto, mixato, cantato e suonato nell'album insieme a tanti altri ospiti (la cui lista completa è riportata di seguito). Mentre i due fratelli si sono occupati delle parti di piano e batteria, l'album vede l'alternarsi di dieci cantanti e undici chitarristi tra i quali spicca anche Thomas Erak dei The Fall of Troy (presente su Destruction). The Woods Brothers, che viene pubblicato ufficialmente proprio oggi dopo vari annunci e rinvii, è un concept album che racconta una storia immaginaria di un esodo di persone in cerca di un nuovo inizio dopo aver vissuto nella propria terra tirannia e distruzione, una metafora che si presta a molteplici interpretazioni. Naturalmente si possono riconoscere influenze melodiche e vezzi da musical nello stile dei The Dear Hunter e dei Forgive Durden (Terra Firma e The Beginning) e qualche accenno al prog (Interlude I), però i The Woods Brothers si dedicano alla scrittura di canzoni dalla struttura tutto sommato molto ordinaria che privilegiano un rock tastieristico melodrammatico e teatrale, dove ogni brano viene caratterizzato musicalmente in base alla piega che prende la narrazione della storia.
Produced, engineered and mixed by Casey Crescenzo
All songs written by The Woods Brothers
Chris & Nick Woods (music, arrangements, direction)
All piano and keyboards by Chris Woods
All drums by Nick Woods
All bass by Kevin Alvey
All rhythm guitar by Casey Crescenzo
Lead Guitars:
Introduction – Casey Crescenzo
Terra Firma – Ryan Hagelman and Casey Crescenzo
The Beginning – Alex Potts
One Foot Forward – Ryan Hagelman
My Enemy – Morgan Jones
Interlude I – (Pedal Steel) John Schreffler Jr.
Hunger for Power – Stephen Cohen
Para Bellum – Ryan Hagelman
War – Jeff Line
Destruction – Thomas Erak
Hell’s Garden – (Lead Guitar) Zachary Zmed, (Electric Mandolin) Dylan Zmed
Terra Nova – Tristan Cannizzaro
Lyrics:
Terra Firma – Tobias Forrest and Casey Crescenzo
The Beginning – Tobias Forrest
One Foot Forward – Frankie Pedano and Morgan Jones
Hunger for Power – Elliott Yamin and Morgan Jones
Para Bellum – Ciara Budds and Chris Woods
War – Jodie Schell Gilbert
Hell’s Garden – Dylan Zmed
My Enemy, Destruction, and Terra Nova – Morgan Jones
domenica 21 agosto 2016
From Indian Lakes - Everything Feels Better Now (2016)
I From Indian Lakes hanno annunciato l'uscita del loro quarto album, Everything Feels Better Now, per il 14 ottobre, sempre via Triple Crown Records. Questa volta il leader e frontman Joey Vannucchi ha registrato tutti gli strumenti da solo, iniziando a creare i primi abbozzi di canzoni nei sotterranei di un coffee shop che ha affittato e poi in un improvvisato studio casalingo. Arrivato ad avere nel cassetto venti nuovi brani, Vannucchi ne ha selezionati dodici ed è volato a Los Angeles ai Sound City Studios per dare una veste definitiva all'album. Usando apparecchiature vintage e analogiche, insieme al produttore Kevin Augunas e all'ingegnere del suono Gavin Paddock, Vannucchi ha dichiarato che non c'è stato un processo di editing per quanto riguarda voci e strumenti musicali, ma ha cercato di mantenere un approccio lo-fi durante tutta la lavorazione. The Monster è il primo singolo tratto da Everything Feels Better Now.
Durante il 2016 ricordo che i From Indian Lakes sono stati comunque attivi: nel mese di gennaio è uscito l'EP acustico Wanderer, con tre inediti e le rivisitazioni di Ghost e Come in This Light, due brani tratti da Absent Sounds.
Mentre un mese fa è stato reso disponibile il documentario To and From Indian Lakes, con 50 minuti che riassumono la vita on the road del gruppo.
www.fromindianlakes.com
mercoledì 17 agosto 2016
Mike Keneally - Scambot 2 (2016)
Oltre ad essere attivissimo dal lato dei concerti (la sua ultima apparizione è stata al fianco di Joe Satriani, Steve Vai e Guthrie Govan nel tour G3), per quanto riguarda il lavoro in studio avevamo lasciato Mike Keneally nel 2013 con You Must Be This Tall e, ancora prima, c'era stata la collaborazione con Andy Partridge su Wing Beat Fantastic. Per tornare al primo capitolo di quella che è la trilogia del concept Scambot, si deve risalire a ritroso addirittura al 2009, anche se la genesi di tutta la storia risale al 2007. L'idea musicale di Keneally si è sviluppata in quasi dieci anni come un work in progress che si compone di vari elementi mentre il lavoro prosegue. In questo caso pure la registrazione di Scambot 2, come conseguenza, si è avvalsa di vari musicisti che si sono affiancati agli ormai fidi Bryan Beller, Rick Musallam e Joe Travers, tra cui Doug Lunn, Krys Myers, Marco Minnemann, Pete Griffin, Gregg Bendian e Evan Francis.
Come lo stesso Keneally ha ammesso, Scambot vuole essere un banco di prova per la sua creatività, senza darsi delle regole o dei limiti, a partire dal racconto singolare che narra del protagonista Scambot, un musicista frustrato che scopre di essere nient'altro che un giocattolo appartenente alla mente criminale di Boleous T. Ophunji, un magnate della marmellata (proprio così!) che usa e manipola l'umore e le azioni di Scambot attraverso i suoi esperimenti. Tra le altre cose assurde che succedono, ad un certo punto Ophunji riesce a catturare gli Scorpions e altri musicisti al fine di fargli suonare le grandi idee musicali concepite da un certo Govin, ma Scambot 2 si arricchisce di ulteriori personaggi stravaganti che Keneally ci presenta nel corposo booklet. Dato che la storia, i testi e la musica procedono di pari passo e si alimentano creativamente a vicenda è logico aspettarsi mirabolanti fantasie prive di freni inibitori in ognuno di questi campi. Keneally, infatti, apre il disco con In the Trees, un siluro da dieci minuti e mezzo nel quale si sprecano fraseggi elettroacustici math rock, riff metal, suggestioni fusion, mentre il dialogo tra i personaggi è caratterizzato da timbri vocali manipolati al fine di differenziare la loro voce. Superato questo appagante scoglio, gli altri quattordici pezzi veleggiano su una durata più contenuta, quasi canonica verrebbe da dire.
Se il primo volume veniva a patti con un'estetica compositiva molto cervellotica, melodicamente complessa e a tratti ermetica, in questo secondo capitolo Keneally recupera la sua verve di scrittore composito, ma concedendosi a delle soluzioni decisamente più aperte, definendo con Scambot 2 il suo miglior album dai tempi di Dancing. Se in quell'ambito però Keneally aveva dato sfogo a brani che si arricchivano di un piglio da big band rock, dove l'assolo individuale ricopriva un ruolo importante quanto le parti collettive, qui si trattiene e lascia che le stranezze assortite siano il perno della sua visione di canzone, un po' come accadeva su Sluggo!. Il risultato viene ottenuto grazie ad uno spaziare eterogeneo da parte di Keneally nelle progressioni estetiche che ha sviluppato durante la propria carriera. Così il blues Roots Twist, il proto soul di Race the Stars e di Sam si pongono in quella prospettiva di cantautorato prog che era il focus primario di un album come Dog, mentre Clipper e Scores of People invece tornano indietro fino alle amene canzoni intricate di hat., tra cui spiccano i passaggi cubisti di piano elettrico e l'andamento funk/fusion di Buzz. Pretzels riprende lo stile introspettivo acustico/fusion di Wooden Smoke e Nonkertompf insieme alla serenata Cold Hands Gnat. In questo modo, inoltre, Keneally prende la scusa per accostare le cose più lontane, stilisticamente parlando, tipo i febbrili riff hard rock di Roll e il bluegrass di Constructed. Come copiosità direi che ce n'è abbastanza per assimilare il tutto con calma, almeno fino all'arrivo del terzo e conclusivo capitolo (che, a quanto sembra, non sarà previsto in tempi brevi).
www.keneally.com
venerdì 12 agosto 2016
Young Legionnaire - Zero Worship (2016)
Quando Mike Vennart lo scorso anno ha registrato, realizzato e portato in tour il suo esordio come solista The Demon Joke, aveva reclutato per la sua band un giovane e talentuoso batterista che risponde al nome di Dean Pearson. Da ormai cinque anni Pearson fa parte dei Young Legionnaire, gruppo che ha alle spalle solo l'album Crisis Works (2011) e l'EP Wreckonomics (2012) - entrambi ottimi spunti per conoscere lo stato del post hardcore moderno - che si appresta a pubblicare il suo secondo lavoro Zero Worship. I fondatori del trio sono comunque Paul Mullen (voce e chitarra), prima frontman nei grandiosi ma sottovalutati Yourcodenameis:milo e poi negli The Automatic e Gordon Moakes (basso), che fino al 2015 ha fatto parte dei Bloc Party, poi lasciati definitivamente per dedicarsi completamente ai Young Legionnaire. Il lungo periodo trascorso tra il primo e il secondo album, quindi, è stato principalmente da imputare agli impegni di Moakes con i Bloc Party, anche se il contenuto di Zero Worship ha preso forma negli ultimi tre anni.
Quello dei Young Legionnaire è post hardcore nella sua essenza più progressiva, è tanto abrasivo quanto impegnato in melodie oblique, ma scordatevi tempi lineari o canzoni che altalenano i quite/loud di facile presa, Zero Worship viaggia su territori math rock e post punk, dove dominano ritmiche marziali e sincopate, bassi con la stessa potenza di una palla da demolizione, chitarre spaziali o electronoise a seconda dell'evenienza. L'apertura segnata a fuoco con Year Zero è space prog declinato con l'hardcore, tra spirali di bassi con fuzz e contorsioni ipnotiche, il pezzo cresce d'intensità con un incredibile muro di suono. Pearson più che dettare il tempo crea degli spasmi irregolari su Heart Attack, brano condito da chitarre industriali e un intermezzo quasi prog con arpeggi e tastiere che funziona senza ricorrere a nessun chorus. Il groove di basso e batteria sul quale si fonda Hail, Hail è così dark e oscuro che quasi pare un omaggio al post punk e al gotico elettronico degli anni '80. Simone è uno di quei viaggi psych prog basato su un arpeggio che crea tensione, accentuato dall'incalzante batteria e dagli archi. Anch'esso, come Heart Attack, fa a meno dell'ausilio di un vero e proprio chorus, mettendo in luce il vezzo della band di lavorare più sullo sviluppo di una struttura granitica e la costruzione di un climax, piuttosto che allinearsi ai soliti schemi bipartito o tripartito.
In questi primi quattro pezzi si potrebbero già tirare in ballo alcuni grossi nomi o numi tutelari, presentandosi come un mix tra Million Dead e Sucioperro, ma anche tra Oceansize e Biffy Clyro. Cosa confermata più avanti dalla scorrevole Balaclava e dalla semi acustica You and Me, due canzoni che, senza intaccare il fronte post hardcore, sfoggiano una percentuale di pop rock pari a quella immesa nel genere dai due gruppi scozzesi di cui sopra. Con uno di quei riff di basso esportati dai Motorpsycho prende avvio Candidate, un veloce e nervoso grumo hardcore che fa il paio con Sawn-Off Shotgun, l'altro breve affilato divertissement dal sapore metallico di uno stoner rock terra-terra alla Queens of the Stone Age. E' ancora Pearson a dettare legge con le sue sincopi dagli accenti dispari su Hospital Corners, aggiungete dei riff di chitarra a singhiozzo che poi si dischiudono in lunghe note distorte intervallate da power chords e probabilmente avrete il miglior pezzo mathcore che vi capiterà di ascoltare quest'anno. Disappear si posiziona sulla stessa onda di memorabilità, saturo di cariche elettriche, esplosioni improvvise che impiegano battiti regolari, alternando stop&go della batteria. There Will Be An Escape Hatch chiude con un senso di irrisolto: ha i contorni sbiaditi di una ballata raccolta, se non fosse per una ritmica tribale che interviene a mantenere una certa tensione che infatti nel finale cresce d'intensità. Zero Worship segna un grande passo avanti per i Young Legionnaire e di sicuro è da annoverare tra le uscite più rilevanti del 2016, proiettandoli di diritto tra i nomi più interessanti del genere. Post mathy hardcore spacey proggyness.
http://younglegionnaire.com/
lunedì 8 agosto 2016
Sunny Day Real Estate - How It Feels to Be Something On e altre storie
Quando, nel 2009, i pionieri dell’emocore Sunny Day Real Estate tornarono insieme, dopo una pausa durata quasi dieci anni, per l’occasione la loro etichetta (la Sub Pop) decise di ristampare in doppio vinile i primi due album del gruppo, con l’aggiunta di qualche inedito. Oggi, a distanza di diciotto anni dalla sua uscita, la Sub Pop completa l’opera e ristampa anche il terzo album in studio degli SDRE, How It Feels to Be Something On. L’emocore è stato forse il genere più elusivo e imprevedibile nei suoi sviluppi, tanto da aver nel tempo perso i legami con le proprie origini, fino a contenere all’interno dei propri confini i gruppi più disparati con dei connotati abbastanza differenti rispetto alle band che ne diedero l’avvio. Addirittura il genere arrivò negli anni 2000 con pesanti influssi pop punk, raggiungendo il successo grazie a complessi come Weezer, Dashboard Confessional e Jimmy Eat World, senza poi contare l’imbarazzante deriva emo fatta di trucchi, frangette e pose da eterni insoddisfatti della vita. Quindi, rimettiamo un attimo le cose in ordine e approfittiamo di parlare di una band senza la cui influenza, probabilmente, la maggioranza degli artisti presenti su altprogcore non avrebbe iniziato una carriera.
Anche se in linea di massima si fanno risalire le origini dell’emocore all’interno della florida scena della Washington D.C. degli anni ’80 con l’avvento dei Rites of Spring, ad imprimere il marchio a fuoco al genere furono i Sunny Day Real Estate nei primi anni ’90, nati a migliaia di chilometri di distanza nella Seattle in pieno fervore grunge. Per ogni sottogenere che si rispetti le sue origini risultano sempre vaghe. Le opinioni sull’effettiva nascita si contraddicono e si perdono nella nebbia dei tempi, fino a comprendere gruppi antecedenti che di quel genere abbracciavano solo le prime vaghe caratteristiche. Per una questione di praticità si parla quindi di “prima onda” e “seconda onda” dell’emocore, ma c’è sempre un’opera di riferimento a fare da detonatore e, a definire quella che poi divenne la sublimazione del sound emo, fu Diary, primo lavoro dei Sunny Day Real Estate, pubblicato il 10 maggio 1994. La voce androgina con tanto di falsetto di Jeremy Enigk, la chitarra aspra di Dan Hoerner e le poderose bordate ritmiche della batteria di William Goldsmith abbinate al basso di Nate Mendel, imprimevano un’aura di nuovi classici senza tempo a brani come Seven e In Circles.
Le canzoni di Diary non si basavano su riff o power chords, ma molto spesso presentavano arpeggi basilari costruiti su accordi non convenzionali sommersi in atmosfere cupe, ma comunque epiche: “Eravamo come dei ragazzi che suonavano hardcore che sperimentavano mentre scrivevano delle vere canzoni.”, spiegò Goldsmith, “L’hardcore è veramente veloce e fuori controllo. In noi c’erano ancora la scrittura e l’arrangiamento, ma questa era una cosa totalmente nuova, stavamo imparando come lasciare dello spazio. Avevamo queste melodie che possedevano un qualcosa di trionfante; connettevano quello che sentivamo”. I Sunny Day Real Estate avevano ottenuto un contratto con l’etichetta Sub Pop, cioè la label che aveva contribuito a far nascere ed espandere il “Seattle sound”, che poi sarebbe diventato il grunge. Il fatto strano è che i Sunny Day Real Estate si distinguevano da tutti gli altri colleghi per uno stile più tormentato e progressivo, messo bene a fuoco negli album successivi. Il secondo lavoro del 1995, Sunny Day Real Estate (conosciuto anche col nome di “LP2” e “Pink Album” per la sua copertina completamente rosa), era quello che metteva veramente in primo piano l’anima più intricata dell’emo, anche se molto materiale era stato scritto praticamente in concomitanza con quello di DIARY. “Il secondo disco è più complesso di Diary per quanto mi riguarda”, affermò Enigk, “a causa dell’uso di tempi dispari e per le sue strutture contrastanti”. Anche Mendel era d’accordo su questo punto: “Diary è un po’ più pop, che significa più semplice. Le parti di LP2 tendono ad essere più complicate; le canzoni assomigliano più a parti che sono state saldate assieme l’un l’altra, piuttosto che essere un tutto coeso, così ha finito per suonare più proggy”. Il che non significava che LP2 dovesse contenere necessariamente canzoni di lunga durata; al contrario, in pochi minuti, i Sunny Day Real Estate condensavano un cumulo di piccole intarsiature e brevi frammenti all’interno di una scrittura composta dai classici strofe e ritornelli. Nei testi di Enigk e Mendel traspariva un’introspezione inedita per i gruppi usciti fuori da Seattle.
Un aneddoto accaduto nei primi mesi di vita dei Sunny Day Real Estate descrisse molto bene tale aspetto. Il co-fondatore della Sub Pop, Jonathan Poneman, capitò in un locale insieme a Dave Rosencrans, un altro uomo dell’etichetta, dove stavano per l’appunto suonando i Sunny Day Real Estate che, quando dal palco notarono i due tra il pubblico, si gettarono in una versione talmente intensa di Song About an Angel da ridurre in lacrime Rosencrans (ascoltatela in questa bellissima versione live). Inutile aggiungere che Poneman rimase piuttosto impressionato. A proposito della sua particolare vocalità Enigk rivelò di essersi ispirato al cantante dei Shudder to Think Craig Wedren: “Quando iniziammo come band una grande influenza su di noi venne dalla Dischord Records, gli Shudder to Think in particolare. La voce di Craig Wedren mi diede il coraggio di cantare…come una ragazza e non sentirmi strano al riguardo. Perché ho tipicamente una voce alta e mi piacciono le belle melodie. Così uscimmo fuori dall’hardcore e dal punk rock, ma non ero sicuro se le scene hardcore e punk rock delle quali facevamo parte avrebbero accettato quello che veramente volevo fare in opposizione alle urla pesanti”.
L’emocore era quel tipo di musica che un attimo ti cullava amorevolmente tra le sue braccia e quello successivo ti fagocitava con le sue fauci, ma sempre con estrema dolcezza, sempre con emozione. Gli show dal vivo potevano provocare tali sbalzi emotivi che non era raro notare tra il pubblico gente in lacrime, come l’esempio di Rosencrans dimostrò. L’emocore era la parte romantica e malinconica del post hardcore, l’equivalente di un gancio in faccia sferrato con un cuscino: se la strofa era un preambolo di lamentazione che poteva portare ad un chorus rabbioso e catartico, i testi si concentravano su stati d’animo depressivi e di disagio giovanile. Gli emo ridefinirono la concezione della polarizzazione contrapposta piano/forte o quiet/loud che dir si voglia. A livello semiotico musicale, le parti quiete non fungevano solo da pausa introspettiva, ma anche come sospiro romantico. Le esplosioni, invece, erano caratterizzate da chitarre affilate come rasoi, un drumming ossessivo e il basso che pulsava come una grancassa. In più la voce non ringhiava rabbia, ma metteva a nudo le proprie paure ed insicurezze. Più di una volta gli accoliti dell’emo, proprio a causa di queste cedevolezze emotive, furono bollati come “whiny kids”, ovvero “ragazzini piagnucolosi”. Dopo essersi sciolti prima che LP2 fosse pubblicato – ufficialmente a causa di una conversione religiosa di Enigk, diventato Cristiano Rinato, ma in realtà erano le tensioni mai sopite tra i quattro membri –, Goldsmith e Mendel entrarono a far parte dei Foo Fighters, Enigk si dedicò alla carriera solista e Hoerner si dileguò in una zona rurale dello stato di Washington, non molto lontano da Spokane, a mandare avanti la sua fattoria.
Fu solo quando nel 1997 la Sub Pop li richiamò per compilare una raccolta di inediti e scrivere per l'occasione qualche brano aggiuntivo che il gruppo si riunì. Se Mendel preferì rimanere accanto a Dave Grohl e declinare l’invito, l’alchimia tra Hoerner, Enigk e Goldsmith si riaccese forse senza volerlo e, dopo qualche sessione, si ritrovarono tra le mani un album intero. I Sunny Day Real Estate ritornarono a sorpresa l’8 settembre del 1998 con How It Feels to Be Something On, che deviava l’emocore verso ignoti paesaggi trascendentali, semi acustici e quasi meditabondi. Se Enigk da una parte non fa violenza nell'introdurre la sua conversione religiosa tramite dei testi comunque aperti a più intepretazioni, la musica ha un ché di sacrale e devozionale, ma bastava la voce di Enigk a trasmettere i brividi. Il suo timbro vocale era mutato in modo evidente rispetto ai primi due album: “Quella di How It Feels to Be Something On è il tipo di voce che avevo sin dall’inizio. - spiegò Enigk - Prima di registrare Diary avevo perso la voce ed è stato solo con How It Feels to Be Something On che ho iniziato a rafforzarla. Fu a causa dei lunghi tour con i Sunny Day che stressai a tal punto la mia voce da dover in un certo senso ricostruirla.” L’ipnotica Pillars era il brano simbolo di una fertile vena di rinnovo, che prevedeva in programma il raga mistico di Roses in Water, il mantra orientale di The Prophet e quello psichedelico di Days Were Golden. Il Medio Oriente dei Led Zeppelin e le spore folk tracciate dall’album insistevano su territori progressivi che non cercavano il facile ritornello (Every Shining Time You Arrive, 100 Million, la title-track), ma puntavano tutto sull’interpretazione passionale e dinamica dei crescendo e sui ricchi intarsi degli arrangiamenti a spirali concentriche (Two Promises, Guitar and Video Games, The Shark's Own Private Fuck).
L’idillio con la Sub Pop si interruppe in modo polemico nel 1999 con l’uscita di un album live (anche in versione VHS) non autorizzato dal gruppo, che poi sarebbe questo:
L’ultimo lavoro in studio, The Rising Tide pubblicato nel 2000, era ancora più emozionale, utilizzando in sostanza gli stessi artifici di costruzione produttiva e sonora applicati a classiche ballate emocore che spezzavano il cuore per come trasudavano sentimento (The Ocean, Rain Song). Oppure si affidavano a dei perfetti chorus malinconici dalle fattezze epiche, nei quali erano racchiusi i picchi estetici progressivi cui poteva spingersi l’emocore (One, The Rising Tide). Le chitarre producevano imponenti muri di suono saturi di feedback e affilate distorsioni a non finire, eppure, scavando sotto di loro, si potevano trovare giacimenti di melodie appassionate (Killed by an Angel, Snibe). Neanche a dirlo The Rising Tide fu criticato per la sua vaga influenza prog che non rappresentava altro che un'evoluzione per i SDRE nel modo di creare rock introspettivo, ma potente (una cosa ancora più accentuata nel successivo progetto del trio Hoerner, Enigk e Goldsmith, The Fire Theft). Quattro album, ognuno diverso dall'altro nel profondo, divisi da un'irrequietezza e una tensione che hanno portato a divisioni e riconciliazioni, segnando un pezzo della storia musicale degli anni '90.
venerdì 5 agosto 2016
Sianvar - Stay Lost (2016)
Sianvar è una band che potremmo definire un supergruppo, nata da un collettivo di musicisti che ruota attorno al mondo del post hardcore progressivo nella scena indipendente americana, associati ad un nuovo sottogenere chiamato "swancore" che prende il nome dal chitarrista Will Swan e soprattutto dalla sua etichetta discografica Blue Swan Records che produce e realizza la maggior parte degli album collegati a questo sottogenere (un po' pretestuoso comunque). I membri dei Sianvar sono Donovan Melero (alla voce) dagli Hail the Sun, Will Swan (appunto) dei Dance Gavin Dance alla chitarra, Sergio Medina degli Stolas alla chitarra, Joseph Arrington e Michael Arrington (che qualcuno ricorderà anche come solista con il nome alone.) degli A Lot Like Birds alla batteria e al basso rispettivamente. I Sianvar avevano esordito ormai due anni fa con un omonimo EP dopo il quale il gruppo non aveva assicurato nulla per il futuro, lasciando il sodalizio in sospeso, dato che i cinque membri, comprensibilmente, erano impegnati nelle rispettive band.
Quindi, con una specie di sorpresa, il progetto ha partorito
un primo full length in uscita oggi dal titolo Stay Lost e con la cover
art realizzata da Colin Frangicetto dei Circa Survive. Sebbene il termine
supergruppo viene volentieri associato a band con membri famosi, i Sianvar
questo appellativo se lo conquistano sul campo con un album che è una bomba e
di gran lunga superiore a una qualsiasi uscita dei gruppi dai quali provengono originariamente. Nel senso più positivo del paragone,
Stay Lost è un surrogato di The Mars Volta e Circa Survive e, se solo amate una
di queste band, adorerete ciò che hanno tirato fuori i Sianvar come fosse un
nuovo classico. Al suo interno ci sono delle idee e sonorità pazzesche a
partire da BadRoots, imbellettata da ritmiche convulse e spore psych derivanti
dal periodo The Bedlam in Goliath di Mars Volta, oppure i groove di pop sincopato di
Coordinate Love che pare un inedito dei Dance Gavin Dance.
Non si pensi a Stay Lost come ad un album cervellotico, esso
assume le forme sintetiche degli Hail the Sun e i chorus poderosi dei Circa
Survive, senza tralasciare una continua ricerca che, in una media di durata di tre minuti
e mezzo, porta i brani ad evoluzioni e avvitamenti continui. Concludendo, perché
Stay Lost si eleva sopra i singoli progetti dei cinque musicisti? Per la sua
inventiva, perché la sezione di Arrington e Franzino è un fuoco di fila bombardante
e matematico come non se ne sentiva da tempo, perché Swan e Medina si integrano così bene tra loro, nei tanti
registri di chitarra usati, da farli sembrare diluiti in un unico continuum e perché Melero ha raggiunto la maturità come performer vocale,
nonostante il fardello di assomigliare moltissimo ad Anthony Green (ma quella, però,
non è colpa sua).
giovedì 4 agosto 2016
Piccoli progressi dal pianeta Sunfold
Mi verrebbe naturale odiare bonariamente Kenny Florence, chitarrista degli Annuals e principale responsabile del progetto Sunfold del quale ho parlato a più riprese qui e qui (se volete saperne di più sulle due band gemelle potete seguire i link). Questo perché sono sei anni che praticamente non fa avere notizie sull'uscita della seconda parte (se effettivamente ci sarà) di Harmonia Macrocosmica, annunciata come una serie di tre EP. E dato che si tratta di tale formato pensavo che i lavori proseguissero in modo più spedito.
Quando ormai mi ero rassegnato, intuendo una fine prematura del progetto, ecco che da qualche mese l'account Twitter degli Annuals inizia a postare alcuni nuovi demo dei Sunfold nella cui didascalia si accenna ad un EP di prossima pubblicazione. Niente di ufficiale ancora, però...voglio dire, hai tra le mani del materiale così di prim'ordine e non ti affretti a pubblicarlo? Sarebbe davvero un peccato che a questi demo non venga data una veste ufficiale e restino nel cassetto. Florence si sta muovendo verso ambiti sempre più progressivi in Moving On e Priestess, due pezzi che sfoggiano la sua abilità chitarristica grazie a intricati arpeggi e inaspettate progressioni ritmiche e svolte tematiche che non seguono schemi prefissati. Discorso a parte merita 12,000 Years - una sorta di mini sinfonia per chitarra, voce e un sestetto classico che comprende flauto, clarinetto, flicorno, viola, violino e violoncello - che risale al 2014, ma ultimata di recente. Non è molto, ma per il momento è sufficiente.
lunedì 1 agosto 2016
Altprogcore August discoveries
Gli inglesi Moulettes hanno già all'attivo quattro album, ma devo ammettere che, nonostante la loro carriera ormai decennale, li ho conosciuti di recente grazie all'ultimo Preternatural, pubblicato lo scorso maggio. Lo stile dalla band viene per lo più collegato al prog folk, ma con tinte di elettronica, arrangiamenti moderni e molto incentrato sulle polifonie vocali. Gli strumenti usati dal gruppo sono violoncello, fagotto che si accostano a batteria, chitarra e basso (nel cui ruolo troviamo Jim Mortimore, figlio dell'ex batterista dei Gentle Giant, Malcolm).
Gli australiani Enlight pubblicano un primo EP impostato su un rock melodico che non esclude influenze metal e che, puntando sulla voce femminile di Rachael Graham, quando le atmosfere divengono più dark, affiorano delle somiglianze con i The Gathering.
Questa band di Brooklyn mi è stata consigliata da Chris Baum dei Bent Knee e, date le premesse, è inutile che aggiunga quanto sia valida. noneofuscared è il primo album del gruppo ed stato pubblicato lo scorso settembre. La proposta degli altopalo è alquanto singolare e pare una smontatura ragionata dell'electro pop condito di R&B, creando, con abbondanza di synth, ritmiche tra i beat del funk e le poliritmie del prog, un calderone di suoni da pop psichedelico futurista. Tanto ricco di melodie quanto di dissonanze, più si scava a fondo nell'ascolto più se ne può godere.
Forse qualcuno ricorderà il nome di Max ZT per aver partecipato come ospite ad una traccia su A Dream in Static degli Earthside; è venuto fuori che colui che viene definito con troppa semplicità "il Jimi Hendrix dell'hammered dulcimer", per aver portato il potenziale di questo inusuale strumento verso nuove possibilità, ha anche un proprio gruppo chiamato House of Waters che si appresta a pubblicare il suo quarto omonimo album il 12 agosto per la stessa etichetta degli Snarky Puppy. Intuirete quindi che il trio si avvicina alle sonorità jazz, ma che, per la sua peculiarità di comprendere in line-up solo batteria, basso a sei corde e hammered dulcimer, la gamma stilistica si estende molto facilmente a world music, new age e ambient.
Tom Geldschläger, chitarrista negli Obscura e Pitts/Minnemann Project, ha da un po' di tempo anche un suo progetto solista dal nome Fountainhead che il 5 agosto pubblicherà Reverse Engineering con molti ospiti al suo interno. Neanche a dirlo, lo stile è una fusion metal al confine del djent che spinge sull'acceleratore di virtuosismi e timbriche inusuali.
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