domenica 9 dicembre 2018

The Intersphere - The Grand Delusion (2018)


In genere le crisi umane personali, a qualsiasi livello, portano paradossalmente un artista a dare il meglio nel suo campo. I tedeschi The Intersphere erano fermi dicograficamente a quattro anni fa con Relations in the Unseen proprio a causa di questi problemi. Con The Grand Delusion forse hanno cercato di esorcizzare il passato e rimettere a posto le loro vite con una sorta di concept album ispirato alle teorie sulla realtà dello psicologo Paul Watzlawick e del suo omonimo libro.

Il risultato è l'album più vario e potente che il gruppo abbia prodotto sinora. Non nascondo che l'interesse per i The Intersphere sia nato per il fatto che mi capitò di vederli più volte paragonati ai Dredg. In realtà ben poco dell'hard rock barocco dei The Intersphere è accostabile alla band di Los Gatos, ma posso capire che in quanto ad esecuzione di un alternative rock venato di momenti progressive, la questione facilita una certa affinità. Complice la voce di Christoph Hessler e l'apparato strumentale intento ad erigere mastodontici muri post hardcore, le somiglianze si avvicinano con più coerenza ad un mix tra Sucioperro e Shihad.

Ma vediamo perché The Grand Delusion è un album che va ascoltato attentamente, nonostante abbia ricevuto un'accoglienza tiepida. Innanzitutto, nel suo mostrarsi molto accessibile e diretto, può facilmente creare l'equivoco di essere messo da parte in seguito a qualche ascolto poco attento, al contrario si comprenderà il suo valore solo dopo alcuni ascolti che svelano molte doti nascoste. Ma ciò che risalta maggiormente in The Grand Delusion sono la produzione, gli arrangiamenti e la cura dei suoni. I riff giganteschi, gli intrecci delle chitarre, la profondità delle ritmiche convulse, non si perdono in una nube indefinita di rumore elettrico, ma ogni suono viene esaltato, contribuendo a creare un'onda che avvolge l'apparato uditivo per un'esperienza di ascolto che è un valore aggiunto.

Ogni brano, nel suo mantenere uno schema tematico abbastanza ortodosso, conserva comunque al suo interno piccoli particolari di inaspettate variazioni che contribuiscono nel non abbassare la guardia e mantenere desta l'attenzione. Man on the Moon è forse l'esempio più lampante: quello che all'apparenza parte come come un rock slow alla Queens of the Stone Age, si arricchisce ben presto di epiche svolte prog hardcore passaggi da chamber con tanto di fiati e archi. Anche la title-track nei suoi frenetici bombardamenti punk metal si dipana in progressioni melodiche con proporzioni anthemiche da arena rock. Una cornice generale che esalta grandi aperture pensate per aggiungere quella sensazione larger than life ad un alternative rock che altrimenti si perderebbe nella massa. Ed è forse quello che è sfuggito a molti di coloro che hanno sottovalutato la potenza (ma anche le potenzialità) di questo album.


1 commento:

Dario B. ha detto...

Disco interessante. Effettivamente di primo acchito il richiamo alle sonorità dei Dredg è abbastanza evidente, e per quel che mi riguarda ho notato anche una certa affinanza del cantante alla timbrica di Casey Crescenzo.
Li terrò d'occhio, grazie della segnalazione.