venerdì 18 dicembre 2020

Bitch Falcon - Staring at Clocks (2020)


Per arrivare al primo album i Bitch Falcon hanno dovuto attraversare una gavetta di sei anni, condita da svariati singoli e fatta di concerti coinvolgenti. Come sempre in questi casi, però, l'anticamera paga e ha permesso al trio di Dublino, guidato dalla imponente presenza vocale di Lizzie Fitzpatrick, di forgiare un sound che, dagli acerbi inizi post punk/post grunge, si è in seguito evoluto, aggiungendo alla miscela dello spessore shoegaze fino a crearsi un'identità propria. 

L'esordio Staring at Clocks è una bomba di elettricità lisergica dove finalmente le tanto in voga sonorità del passato non vengono sfruttate per trasmettere nostalgia, ma piuttosto per inspessire l'impasto strumentale. Contando su una sezione ritmica ben rodata, affiatata e tiratissima composta dal basso di Barry O’Sullivan e dalla batteria di Nigel Kenny, la Fitzparick si serve della chitarra come se fosse un mezzo per suturare gli spazi lasciati vacanti, tra feedback viscerali, riverberi abissali e note reiterate, tralasciando power chords e accordi ritmici.

Il primo pezzo, I'm Ready Now, è un post grunge che incontra la new wave con la Fitzparick intenta ad aggiungere un tocco di gotico con il suo cantato, come fosse una novella Siouxsie Sioux. Ecco, come si accennava, è la sua voce a dare un grande impatto melodico ai brani, dato che è lei ad emergere nel labirinto di pulsazioni di Gaslight o nello spaziale trip di Sold Youth. Basso, batteria e chitarra vivono in una dimensione strumentale tribale, noise e scollegata da quella che può essere la melodia portante. E' la Fitzpatrick che porta in superficie un barlume di filo conduttore melodico.

Turned to Gold si avvicina addirittura alle coordinate di Elizabeth Frazer e dei Cocteau Twins, anche grazie ad un caleidoscopico tappeto di riverberi ultraterreni da dreamgaze. How Did I Know? sarebbe quasi ballabile se non fosse che l'attenzione viene calamitata altrove, tra la ritmica serrata e gli infiniti effetti chitarristici che si susseguono nel brano. Questa sensazione di porre l'accento sulla costruzione dinamica del sound continua nella title-track, la quale è come un attestato che prova il lavoro certosino di arrangiamento e produzione messo in atto dal gruppo con il supporto della mano sicura del produttore Alex Newport (At The Drive-in, The Mars Volta, Death Cab For Cutie, The Melvins).

Sono ancora il basso graffiante di O'Sullivan, la batteria metronomica di Kenny e la chitarra heavy-gaze della Fitzparick a fare di Damp Breath, Test Trip e Martyr un trittico che avvolge l'intera gamma sonora che negli anni '80 creava una fittizia linea comune tra gothic rock, pop metal e new wave. Il tutto è ben riassunto nella chiusura di Harvester, avvolto da un'atmosfera straniante e surreale in quello che rimane uno degli esordi più convincenti dell'anno.

1 commento:

Huk ha detto...

Che Bomba!