giovedì 26 gennaio 2017

Courtney Swain - Moon Stalker (single, 2017)


Alcune piccole novità dal pianeta Bent Knee. La band sta attualmente lavorando al quarto album la cui pubblicazione è prevista per questo autunno, ma se ricordate bene nella nostra scorsa intervista realizzata per l'uscita di Say So accennavamo anche ad altri progetti individuali dei vari membri. La cantante Courtney Swain, ad esempio, è attiva già da qualche tempo anche come solista e ha alle spalle due album a proprio nome che potete rintracciare nella sua pagina Bandcamp.

Per chi ama i Bent Knee, che fortunatamente stanno riscuotendo molti consensi e anche altprogcore ha contribuito a far conoscere, mi sembra quindi doveroso segnalare il nuovo bellissimo singolo che la Swain ha appena pubblicato, registrato dal vivo con solo l'ausilio di pianoforte e un quartetto d'archi, dal titolo Moon Stalker. La resa del brano è assolutamente impeccabile, con l'interpretazione della Swain eccelsa come sempre, incorporando vari passaggi che inanellano una serie di crescendo emozionanti. Eccovi il video:



In più aggiungo un brano dei Bent Knee che ho lungamente cercato e che sono riuscito a trovare. Si tratta di un inedito, intitolato These Hands, che è stato incluso nella compilation Boston Sessions, vol.1: Beast uscita lo scorso ottobre e ora disponibile anche su Bandcamp.

giovedì 19 gennaio 2017

RIVIẼRE - Heal (2017)


Credo che oggigiorno far decidere ad una label di investire su un gruppo, senza che questo non abbia ancora pubblicato praticamente nulla, denota un fattore di fiducia nei mezzi della suddetta band che varrebbe la pena ascoltare cosa ha da dire anche solo per questo. In sintesi, diciamo che il quartetto francese RIVIẼRE ha bruciato le tappe, presentandosi immediatamente in pompa magna con un full length dal titolo Heal in uscita domani tramite l'etichetta inglese Basick Records e posto sotto la guida al banco di regia del produttore Forrester Savell, responsabile dei primi due album dei Karnivool.

Tenete bene a mente il nome del gruppo australiano, poiché i RIVIẼRE si inseriscono in quella deviazione di prog metal che ormai è mutata verso un territorio di confine che comprende djent, ambient, shoegaze e post rock. Quindi dimenticate i canoni più pesanti, barocchi e virtuosi del genere, in questo caso la tecnica è al servizio della creazione di paesaggi sonori elettrici diluiti in lunghe cavalcate i cui riferimenti possono essere soprattutto i Karnivool (appunto), ma anche una gran parte del metal alternativo americano a partire dai Deftones e dagli A Perfect Circle.

Nel metal psichedelico dei RIVIẼRE tracce come New Cancer, Yosemite, Symbol e Satin Night sembrano concepite come un trip psichedelico nel quale viene dato uno spazio equamente distribuito tra parti strumentali e parti cantate. Un appunto che si potrebbe fare è che la chitarre escono troppo pastose e un suono più limpido ne avrebbe giovato, inoltre, se da una parte forse qualche pezzo potrà sembrare eccessivamente prolisso capiterà, di contro, di imbattersi in momenti suggestivi che comunque aiutano a godersi la prospettiva sonora.

domenica 15 gennaio 2017

Altprogcore January discoveries


La prima e più bella sorpresa di questo 2017 sono i The Kraken Quartet. Formati nel 2011 a Ithaca, NY, stanno registrando in questo momento il loro debutto discografico, ma hanno appena partecipato ad una stellare session agli studi Audiotree. La musica strumentale dei The Kraken Quartet fa un uso molto esclusivo di strumenti a percussione (doppia batteria, vibrafono, marimba) e si innestano in un blend che loro stessi definiscono "percussion driven post rock" con elementi indie rock, minimalismo, elettronica, jazz e avant-garde.




I Jyocho sono una nuova band giapponese che potremmo definire math pop e hanno esordito lo scorso dicembre con l'EP A Prayer in Vain. Il gruppo è stato costituito dal chitarrista Daijiro Nakagawa, appena uscito dall'esperienza musicale molto simile intrapresa con gli Uchu Conbini dopo aver pubblicato solo due EP. Le canzoni contenute su A Prayer in Vain hanno la peculiarità di essere molto accessibili e orecchiabili anche per chi non ha mai ascoltato math rock, mettendo in primo piano l'estetica del J-Pop ma continuando a mantenere intricate trame a livello strumentale.



Non so esattamente da dove siano saltati fuori i North End, ma le sonorità di Alpha State mi sono risultate subito familiari dato che è come ascoltare un album di midwest emo (come quelli di Into It. Over It., Sleep In e American Football) solamente in versione strumentale.



Dopo aver apprezzato l'esordio dei öOoOoOoOoOo il quale vedeva alla batteria come ospite Aymeric Thomas dei Pryapisme era quasi d'obbligo andare a scoprire la produzione di questo eclettico ensemble. E' venuto fuori che i Pryapisme hanno un nuovo album pronto in uscita il 3 febbraio e due tracce sono già rese disponibili in anteprima su Bandcamp. Il mix ardito che il quintetto francese produce non è dissimile a ciò che avevo ascoltato su Samen con accostamenti a dir poco folli tra jazz, elettronica, chiptune e avant-garde.


Il duo svizzero formato da Marena Whitcher e Andrina Bollinger che prende il nome di Eclecta, nel proprio esordio A Symmetry si cimenta in un art pop che pone in risalto la strumentazione acustica composta da chitarra, piano, percussioni e ricco di armonie vocali. L'impostazione minimale e gli arrangiamenti molto essenziali non impediscono ai pezzi di emergere con una buona corposità e dinamica con il risultato di rendere l'album tutt'altro che monotono e omogeneo, ma eclettico e frizzante.

martedì 10 gennaio 2017

Pain of Salvation - In The Passing Light of Day (2017)


La presentazione con la quale è stata anticipata la pubblicazione di In The Passing Light Of Day, il nuovo album dei Pain of Salvation, ha posto in evidenza ciò che tutti attendevano e speravano: non solo un ritorno alle radici prog metal del gruppo, completo di brani più estesi e articolati e suoni più massicci, ma anche la riesumazione del formato concept molto caro a Daniel Gildenlöw, il che era quasi una scelta scontata visto il pretesto per raccontare la drammatica esperienza personale attraverso cui è passato il cantante e chitarrista nel 2014. Quindi, se ve lo chiedete, In The Passing Light Of Day prende proprio ispirazione dai giorni che Gildenlöw ha dovuto affrontare in ospedale a causa di un'infezione che lo ha portato quasi alla morte, creando così le basi per una riflessione sulla caducità della vita, delle relazioni personali e via dicendo. Il doloroso tema è stato messo in musica adeguatamente, seguendo l'umore mutevole che si può trarre dall'angosciosa esperienza di Gildenlöw e anche la scelta del produttore Daniel Bergstrand (In Flames, Meshuggah, Strapping Young Lad) assicura un'immersione in tinte metal dal carattere molto dark.

Nonostante la prospettiva personale dell'opera, Gildenlöw non ha comunque lasciato che la scrittura fosse suo appannaggio esclusivo, tanto che il caso più eclatante è stato il ripescaggio del pezzo Rockers Don't Bathe dei Sign, la band del chitarrista Ragnar Zolberg, tratto dall'EP Out from the Dirt (2012) dal quale è stato tirato fuori (con minime modifiche al testo) il primo singolo Meaningless. Trattandosi di un racconto così soggettivo naturalmente anche le liriche hanno assunto un ruolo importante, tanto che talvolta la musica ne sembra assorbita e quasi assoggettata con il risultato di apparire piuttosto appiattita (il requiem If This is the End, il soul Silent Gold, l'hard blues The Taming of a Beast che non a caso sono quelle più vicine alla vena da rock americano affiorata nel periodo di Road Salt).

Tornando al contenuto musicale dell'album, andrei cauto sul fatto che esso sia un degno successore di The Perfect Element o Remedy Lane, ovvero i lavori con i quali i PoS devono fare i conti quando si parla di "ritorno alle origini". Ma non è solo questo, guardando indietro ai primi capolavori del gruppo svedese, si può argomentare come loro, più che i Dream Theater, abbiano insegnato alla odierne generazioni in quale modo realizzare un prog metal molto più sperimentale, melodicamente avventuroso e più coinvolgente dal punto di vista emotivo. Nel frattempo però il genere si è evoluto e adesso questa logica si è invertita, portando i Pain of Salvation, che avevano deciso di percorrere legittimamente altre strade, a tornare sui propri passi e guardare agli altri. Quello che ineluttabilmente traspare da In The Passing Light Of Day, oltre che dal singolo Reasons e dalla lasciva sensualità metal di Tongue of God, è quanto si siano adattati e accodati i Pain of Salvation alla nuova ondata di gruppi prog metal tipo, per fare un esempio, gli Haken e soprattutto i Leprous, ai quali gli aspetti più oscuri dell'album sembrano rifarsi.



In The Passing Light Of Day potrà accontentare e far gioire chi cercava una ritrovata vena per l'estetica progressiva nei PoS, però non è privo di limiti che lo pongono distante dallo status di capolavoro già proclamato nella maggior parte delle recensioni, ma più realisticamente riconducibile ad un dignitosissimo album di prog metal contemporaneo che incorpora molti elementi e stratagemmi sonori ormai divenuti canone, come i sempre abbondanti riff sincopati con ammiccamenti al djent. Limiti che vengono a galla sulla pelle di canzoni che comunque mantengono un certo legame sonoro con il passato, ma nei casi dove il minutaggio è più elevato sembrano tirate troppo per le lunghe.

Prendiamo ad esempio una delle migliori: Full Throttle Tribe, ci sono i classici controtempi con incedere minaccioso, un chorus che ti si stampa in testa, una sottile linea di synth che pulsa e crea atmosfera. Eppure, nella sua durata di quasi nove minuti, tutto si risolve a livello tematico principalmente tra strofa e ritornello, un pezzo che se fosse stato sotto i cinque minuti avrebbe potuto ricoprire un ruolo più ad effetto di Meaningless. Quello che non funziona qui e in altri brani sono gli innesti da lento atmosferico riconducibili soprattutto ai passaggi di piano e tastiere, non diciamo inadeguati, ma abbastanza superflui proprio perché privi di ispirazione e quasi forzati, si veda anche il bridge dell'ottima On a Tuesday che si fregia delle stesse qualità di Full Throttle Tribe, ma soffre di una solenne coda conclusiva fin troppo dilatata. Altre stentano a decollare come Angels of Broken Dreams, un pezzo dalla ritmica pleonasticamente "sbicentrata" che ruota attorno ad un tema che non sfocia mai in un climax e quando lo fa, con il bellissimo doppio assolo di chitarra finale, è ormai troppo tardi.

L'album si chiude con The Passing Light of Day: uno showdown al contrario dove gli esagerati quindici minuti a disposizione si dividono in un'interminabile prima parte a forma di ballad minimale per solo chitarra e voce seguita da una seconda più strutturata con tutta la band, dove il perno centrale rimane il chorus già esposto anche nella prima. E In The Passing Light Of Day è soprattutto questo: sprazzi di superba lucidità contrapposti ad episodi trascurabili, svelandosi così un lavoro più preoccupato di crogiolarsi in un sentimento e edificare un'atmosfera coerente piuttosto che un viaggio musicale ben arrangiato, pianificato e sviluppato.


giovedì 5 gennaio 2017

The Monsoon Bassoon - Il passato dei Knifeworld era già il futuro


Se conoscete i Knifeworld probabilmente sapete che il loro leader e fondatore, Kavus Torabi, oltre ad essere stato chitarrista nell'ultima fase dei Cardiacs, è anche coinvolto in numerosi act che confinano con il rock sperimentale e il prog tra cui nell'immediato vengono in mente da citare Guapo e Gong. Ma, se al momento apprezzate i Knifeworld e li ritenete originali, a questo punto meriterebbe fare un passo ancora più indietro, adottando la formula del "forse non tutti sanno che"... negli anni '90 Kavus Torabi militò in una band che faceva quello che fanno più o meno oggi i Knifeworld, ma con molta più lungimiranza: i The Monsoon Bassoon. Ecco per voi un aneddoto che spiega di chi stiamo parlando: siamo nel 1998 e i The Monsoon Bassoon si stanno facendo conoscere in Inghilterra suonando in giro per locali. Alla fine di uno di questi spettacoli il responsabile di una major intercetta la band per complimentarsi: "il vostro è stato il miglior concerto al quale abbia mai assistito". "Bene - replicarono - allora perché non ci stacchi subito un assegno e mettiamo una firma su un contratto?" La risposta del responsabile fu più che franca: "Perché se ingaggiassi un gruppo come il vostro perderei subito il mio lavoro."

I The Monsoon Bassoon pubblicarono quindi il loro primo e unico album nel 1999 - tramite la propria etichetta indipendente Weird Neighbourhood Records messa in piedi dal loro manager John Fowers - con la produzione di Tim Smith dei Cardiacs. I Dig Your Voodoo, la cui copia fisica è fuori catalogo e introvabile ormai da anni (se non a prezzi esorbitanti su Discogs o su eBay), arrivava dopo la cassetta EP di quattro pezzi Redoubtable, edita nel 1995 dall'etichetta Org Records e da una tripletta di singoli (Wise Guy, In The Iceman’s Back Garden, The King of Evil) che conquistò consecutivamente per tre volte il riconoscimento di "Single of the Week" della rivista NME. Il che suona un po' strano data la natura mainstream del settimanale se si pensa che all'epoca la musica che dominava nel Regno Unito era per lo più il rimasuglio avariato del britpop e l'elettronica che alimentava i rave party. I The Monsoon Bassoon erano estranei a tutto questo, provenienti dai margini della scena psichedelica e metal inglese, il gruppo era nato dall'amicizia tra Torabi e Dan Chudley, chitarristi e principali compositori, dopo l'esperienza nei Die Laughing, seguiti da Sarah Measures (voce, flauto, sassofono, clarinetto), Jamie Keddie (batteria) e Laurie Osborne (basso).



Ascoltando I Dig Your Voodoo non è sbagliato individuare degli elementi che quattro anni dopo troveremo in un album seminale come De-Loused in the Comatorium dei The Mars Volta: la dicotomia che frappone la complessità progressive e le improvvise esplosioni punk che rendono la musica più viscerale, specie su The King of Evil e The Very Best of Badluck '97, sono caratteristiche che rispecchiano un certo amore anche per il Rock in Opposition, dove la catena melodica che tiene insieme i brani sembra essere appesa ad un filo sottile pronto a spezzarsi, incastrato nei grovigli sonici che generano sottili cacofonie. Alcuni interventi di chitarre arpeggiate e il ripetersi di fraseggi si rifanno alle peculiarità del minimalismo o alle folli trovate Pronk dei Cardiacs come accade su Wise Guy e Blue Junction. Su In The Iceman’s Back Garden e nei caotici minuti finali di Commando si raggiungono livelli di chamber rock e avant-garde coerenti con un'estetica rock accessibile. E, se vogliamo, il coraggio dei Monsoon Bassoon risiedeva proprio nel calare in un contesto post punk complesse soluzioni da rock intellettuale che si risolvevano, ad esempio, nelle progressioni frenetiche di The Constrictor e in quelle prog di Fuck you, Fuck Your Telescope. Un quadro più completo e approfondito della versatilità dei The Monsoon Bassoon ce lo mostrano le b-sides che avevano accompagnato i tre singoli già citati (le quali sfiorano le sincopi e le ritmiche composite del math rock su 28 Days in Rocket Ship e Flamingo Lawn), e quelli successivi risalenti a poco prima dello scioglimento (i contrappunti di The Noosemaker, le progressioni crimsoniane di God Bless The Monsoon Bassoon).

Purtroppo la mancanza di denaro e di un contratto discografico che desse stabilità finanziaria alla band ne decretarono la fine nel 2001, lasciando negli archivi molto materiale inedito. Per scrivere qualcosa sui Monsoon Bassoon avrei voluto aspettare la realizzazione di un fantomatico triplo box set antologico (contenente l'opera omnia del gruppo da tempo fuori catalogo) di cui Torabi iniziò a parlare nel 2011, ma da allora non se ne è saputo più nulla. Credo che a questo punto più il tempo passi e meno siano le speranze di vederlo materializzato, anche perché Torabi sembra essere sempre più assorbito dagli impegni con Knifeworld e Gong, andando a compromettere lo spazio necessario che richiederebbe un'operazione di assemblaggio e rimasterizzazione di materiale edito e soprattutto inedito. Inoltre, nel frattempo, molto di questo materiale introvabile è stato caricato sulla pagina Soundcloud del gruppo (che forse tale scelta voglia rappresentare una sorta di resa o mediazione?). Ho deciso quindi di parlare ugualmente dei Monsoon Bassoon per il loro valore fondamentale all'interno del prog-math-avant-core rock, soprattutto se si considera come suona contemporanea la loro musica risalente ormai a quasi venti anni fa.

domenica 1 gennaio 2017

Dark Star: i detriti oscuri dei Levitation


Premessa: l'articolo che segue è un proseguimento delle vicende narrate qualche mese fa a proposito della band Levitation e, per godere appieno della musica dei Dark Star, sarebbe utile e necessario conoscere la loro storia precedente che a grandi tratti potete recuperare qui.

Se i Levitation avevano segnato in modo indelebile le vie alterne del prog psichedelico di inizio anni '90, ciò che successe dopo è altrettanto interessante da essere ripescato e raccontato. Dopo la fine dei Levitation i tre membri Christian "Bic" Hayes, David Francolini e Laurence O'Keefe continuarono le proprie carriere separatamente in orbite musicali differenti, ma evidentemente il destino non aveva ancora finito con loro e nel 1998, dopo essersi incontrati ad un concerto dei Sonic Youth, tornarono a suonare insieme formando i Dark Star. Affrontato il solito rituale dell'EP apripista, il 1999 vide la pubblicazione del loro primo e unico album Twenty Twenty Sound, realizzato addirittura sotto la supervisione della mitica etichetta Harvest, la costola progressiva della EMI, e prodotto da un nome di rilievo come Steve Lillywhite. Forte di due singoli eccellenti, ma molto differenti in termini di prospettiva formale e sonora (Graceadelica e I Am The Sun), il gruppo riesce ad avere una discreta esposizione mediatica, partecipando anche a qualche trasmissione televisiva inglese.

Twenty Twenty Sound è un coagulo di suoni prog/psych acidi e mesmerizzanti, come se i Levitation fossero usciti fuori da un buco nero portandosi dietro un po' di materia oscura. Tutto è talmente lisergico e avvolgente che anche la batteria di Francolini e il basso di O'Keefe si protendono nell'insieme con proprietà psichedeliche, per certificarlo basterebbero i groove quasi dub di 96 Days e quelli fluidi di What in the World's Wrong oppure le pulsazioni febbrili di A Disaffection. Poi, come dicevamo, ci sono le distinte suggestioni fornite dai singoli I Am the Sun, un inno alternative dominato da chitarre deraglianti e ritmiche frenetiche, e Graceadelica, un trip psichedelico a spirale che si ciba di trance ambient quanto di garage rock. Comunque è l'eredità stilistica lungimirante dei Levitation la fonte primaria che permea e illumina pezzi come About 3am, The Sound of Awake Lies. Siamo nel 1999, ma qui dentro ci sono già tutti i Porcupine Tree e gli Ozric Tentacles passati, presenti e futuri, ci sono i King Crimson, c'è il krautrock dei CAN nascosto tra i beat funky e nelle distorsioni che si flettono in poderosi feedback. Ascoltando Vertigo si capisce che anche gli Oceansize non sono stati immuni dal fascino dei Dark Star. Inoltre, a proposito dei King Crimson, è da notare che l'artwork di Twenty Twenty Sound e dei tre singoli che lo hanno accompagnato (Graceadelica, About 3am I Am The Sun) è opera dell'artista Tom Phillips, che nel 1974 curò quello per l'album Starless and Bible Black.
 


In un'incredibile coincidenza con la sorte della loro ex band, il secondo album dei Dark Star previsto per il 2001 non vedrà mai la luce con una pubblicazione ufficiale. Ciò che successe è questo: Hayes, Francolini e O'Keefe avevano praticamente pronto il nuovo disco, sono così sicuri che ne annunciano l'uscita nelle interviste e alcuni pezzi vengono presentati dal vivo. Inaspettatamente, un avvicendamento di ruoli all'interno della EMI per arginare i costi dell'etichetta fece perdere ai Dark Star i punti di riferimento nelle persone su cui si appoggiavano e la casa discografica, non vedendo un potenziale nella loro proposta, li scaricò detenendo comunque i diritti sulla musica da loro registrata. In tempi più recenti una versione bootleg dell'album è affiorata nel Web con il titolo di Zurich, prima come file scambiato tra i fan e in seguito, nel 2011, caricato addirittura per intero nel profilo Soundcloud dei Dark Star. In ogni caso, sono ancora in molti ad attendere un versione "definitiva e autorizzata" di Zurich e, anche se nel 2015 Hayes ne dichiarò un'imminente pubblicazione ufficiale, ancora ad oggi non si è palesata.

Tra le ragioni che portarono la EMI a scaricare i Dark Star c'era, dal loro punto di vista, la difficoltà di trovare un singolo adeguato per promuovere il secondo album. Eppure sembra impossibile che le rilucenti arie art pop di un brano perfetto come Bigger Than Love siano rimaste finora inascoltate oppure, al limite, rivolgersi all'alternative rock di Strangers and Madmen che all'epoca ebbe anche qualche passaggio in radio. Ma effettivamente essi rappresentavano un'eccezione, poiché tutto l'album ruota attorno ad un programma estremamente esoterico e spietatamente chiaro nella propria direzione sonora. I brani si fanno ancora più sinuosamente psichedelici, disegnando il loro perimetro con reiterazioni quasi ossessive e con fasci e riverberi elettrici di basso e chitarra che rafforzano il potere straniante del sound. Perfectly Simple, 3 Seconds e The Day That Never Was sono dei viaggi sonici architettati come se l'intento fosse portare allo stordimento dei confini lisergici anche l'ascoltatore, salvo poi riportarlo bruscamente sulla Terra con gli assalti Roman Road e Valentine.

edit 21/02/2023: dopo 22 anni di ibernazione nuovo materiale è trapelato su ...out flew reason.