domenica 28 febbraio 2016

Novità post hardcore e emocore in arrivo


Benvenuti ad un altro post cumulativo sulla linea mensile dei "altprogcore discoveries", solo che questo non fa parte di quella serie per il fatto che dei seguenti gruppi e artisti ne ho già parlato in passato. Quindi passerò in rassegna un piccolo contingente di novità di imminente uscita che non sono propriamente prog, ma ruotano attorno al panorama post hardcore, emocore e math rock.

Il primo album nella lista è We'll Be Alright dei Fight Cloud che, dopo una campagna Indiegogo per finaziare le spese di produzione, arrivano a quello che potrebbe essere il loro secondo e ultimo album.




L'11 marzo sarà pubblicato anche il terzo EP dei City of Ghosts P R I S M S che segue a quasi tre anni di distanza il buon The Calm in the Current del quale avevo parlato qui.




Ancora l'11 marzo è in arrivo il nuovo album di Evan Weiss, a.k.a Into It. Over It., dopo l'insipido Intersections. A dire il vero non avrei molto interesse in questa uscita, ma la curiosità è stata ridestata dalle parole del produttore John Vanderslice (Mountain Goats, Spoon, and St. Vincent) che in una dichiarazione riportata sul sito di SPIN compara Standards, questo il titolo, ai fasti prog degli Yes, cosa ovviamente esagerata se si pensa al midwest emo portato alla ribalta da Weiss. L'album, pubblicato dalla Triple Crown Records, avrà anche una pubblicazione ufficiale europea il 29 aprile.



E sempre a proposito di Triple Crown Records, il 25 marzo darà alle stampe anche il nuovo Endless Light degli O'Brother, una band che per me è rimasta sempre ostica per quei suoi riff e groove troppo cupi.



La stessa etichetta degli ottimi Strawberry Girls, la Tragic Hero Records, si farà carico di pubblicare il terzo lavoro dei Save Us From The Archon. A sentire la prima traccia tratta da L'Eclisse, si direbbe che il quartetto di Pittsburgh non ha perso quella carica energica per completare una collezione di mathcore strumentale ad alto tasso di frenetici tecnicismi.




Infine ci sono i VIS, i quali hanno già pubblicato due nuovi brani via bandcamp lo scorso dicembre e ricordo che il loro EP No Waves fu uno dei migliori del 2014.

giovedì 25 febbraio 2016

I Gates presentano l'inedito "Captive"

Aspettando il seguito del bellissimo Bloom & Breathe, i post rockers Gates hanno appena tirato fuori un inedito dal titolo Captive, scritto e registrato in origine proprio per quell'album. L'occasione per rispolverare il brano è uno split single condiviso con Matt Pryor (The Get Up Kids), Burn Bright Vol. 1, il cui 50% del ricavato andrà in beneficenza a due organizzazioni per le vittime di violenza sessuale: The East Los Angeles Women's Center e RAINN.


www.gatesnj.com

mercoledì 24 febbraio 2016

Pitts Minnemann Project - The Psychic Planetarium (2016)


Sarà pubblicato l'11 marzo il secondo capitolo dell'avventura condivisa dal tastierista Jimmy Pitts (Scholomance) e da Marco Minnemann (che penso non abbia bisogno di presentazioni). Per il loro nuovo album, che segue 2 L 8 2 B Normal uscito nel 2012, i due sono tornati a lavorare con il chitarrista Tom “Fountainhead” Geldschlager e con il bassista Jerry Twyford (sempre dagli Scholomance). In più ci sono delle sorprese con la partecipazione del sassofonista Joshua Thomson (Atlas Maior) e di Jim Shannon alla tromba che potete ascoltare entrambi nel brano rivelato in anteprima Imaginary Numbers.

The Psychic Planetarium è promosso tramite una campagna Indiegogo attraverso la quale potete pre-ordinarlo. Come il primo lavoro, e forse anche di più, The Psychic Planetarium promette una spregiudicata unione tra prog metal e fusion, seguendo la tendenza sempre più imperante nella scena di aggiungere a musica dalle qualità massicce strumenti a fiato, o comunque affini al jazz, per incanalare in un'unica strada due linguaggi strumentali che erano sempre stati destinati ad incontrarsi.

martedì 23 febbraio 2016

Introducing: Aviations


Le origini degli Aviations risalgono al 2011. Il nucleo della band di Boston è composto dal chitarrista Sam Harchik e dal batterista James Knoerl, proveniente dalla Berklee College of Music, ai quali si aggiunge il vocalist Adam Benjamin. Nel 2012 i tre danno alle stampe il primo album A Declaration of Sound, coadiuvati da altri musicisti che compaiono come ospiti. Gli Aviations sono arrivati alla mia attenzione solo ora con il video appena pubblicato di Intents in Tents, che ripropone un brano tratto dal loro primo album con l'aggiunta di Richard Blumenthal al piano e Dylan Vadkin al vibrafono e che potete ammirare qui:



Ascoltando il primo album, gli Aviations non sembrano molto differenti dalla proposta di un prog metal djent tecnico che rientra nei canoni di altre band. Eppure, ponendo attenzione alla rivitalizzata nuova versione di Intents in Tents si colgono delle potenzialità che proiettano il djent dei Meshuggah vicino agli universi sonori di Steve Vai, Frank Zappa, Queen e il jazz e verso inedite e stimolanti contaminazioni. Se applicassero tutto ciò ad un nuovo lavoro, il secondo album del gruppo potrebbe riservare molte sorprese.
 

lunedì 15 febbraio 2016

Oh Malô - As We Were (2016)


Non è passato neanche un mese da quando li ho presentati su altprogcore ed eccoci arrivati a segnalare questo incredibile debutto dei bostoniani Oh Malô. Quindi, ricominciamo da capo per chi se li fosse persi. Loro sono Brandon Hafetz (voce e chitarra), Jack McLoughlin (chitarra), Jordan Lagana (basso), Isaac Wang (batteria) e in due anni di attività hanno raccolto sei canzoni divise in tre EP di cui avevo parlato (e i cui colori arancio, rosso e blu dominano la copertina di questo LP) e, come anticipato, sono tutte presenti nell'esordio intitolato As We Were di prossima uscita. Quindi, la qui presente è una recensione un po' anomala, una seconda parte che prosegue quanto avevo già scritto sugli Oh Malô. As We Were ha coperto due anni di lavoro tra scrittura, produzione e registrazione, mentre il gruppo ha continuato ad esibirsi dal vivo insieme ad altre band. 

Era da molto che non ascoltavo un alternative rock così fresco, personale e rigenerante. Tutto è curato nel particolare su As We Were, dalla voce esotericamente buckleyiana ed evocativa di Hafetz alle chitarre che si stagliano come un'aura elettrica in ogni brano, fino alle ritmiche che nella loro regolarità si inventano colpi inaspettati. E' da tali premesse che nasce una delle tracce cardine dell'album, quella Feed che senza ombra di dubbio rappresenta uno dei momenti magici dell'intera opera. Ma andiamo con ordine. L'album si apre con le chitarre incandescenti di Burn: un saliscendi emotivo dalle vibrazioni acide e elettriche, placato dalla suadente voce di Hafetz. Hey, Mr. Paul e Out of My Own ripeteno, tra dolcezza e impetuosità, i due poli d'attrazione opposti di As We Were, accomunati da una psichedelia sottesa che non abbandona mai il lavoro nella sua totalità.

In questo caso lo zenith lisergico toccato da Sweet Dreams si ripercuote nel suo crescendo come un vortice e poi continua e si espande nella seguente It All Comes Back con toni da ballad, arrivando alla catarsi finale con tutti gli strumenti in tensione. Miss You e Happy Birthday sono le canzoni che più si avvicinano alle caratteristiche di pop rock, anche se in questa sede il termine assume un significato molto aleatorio e arbitrario, mentre la title-track si mantiene su territori sognanti, raggiungendo le stesse eteree latitudini dei From Indian Lakes. Fine e P.S. (atmosfera lo-fi con rumori di sottofondo la prima - chitarre riverberate e voce profonda la seconda) invece appartengono a quella sfera di impalpabile astrattismo che veste le canzoni come degli abbozzi tratteggiati su tela. Come era da aspettarsi As We Were è un debutto di pregevolissima fattura che, si spera, aiuterà gli Oh Malô ad uscire dai confini bostoninani.



Qui di seguito alcuni brani di As We Were presentati dal vivo in versione acustica.

sabato 13 febbraio 2016

Altprogcore February discoveries

Che siano catalogati come nu jazz o prog jazz, la sostanza degli inglesi GoGo Penguin rimane quella di una muzak intellettuale che può fare colpo sia sugli amanti della musica impegnata sia su coloro che la vogliono lasciare come un raffinato soprammobile da sottofondo. Dopo avere conseguito molti riconoscimenti con il secondo album v2.0, i GoGo Penguin sono da poco usciti con il terzo lavoro Man Made Object che continua in quell'esplorazione di classica moderna/jazz per palati fini, ma non esigenti. Nulla da eccepire sulle qualità dei tre strumentisti, ma è la loro proposta che a lungo stanca. La peculiarità del gruppo è la sezione ritmica che si prodiga nel ricreare i battiti irregolari di breakbeat, trip hop e trance ambient elettronica, mentre il piano ricama cellule melodiche orecchiabili e accompagnamenti minimali. I pezzi sono basati più su fraseggi tematici reiterati (come fossero una canzone) piuttosto che su esposizioni variabili, le quali potrebbero permettere di sviluppare parti soliste per rendere la musica più liquida e mutevole. E invece alla fine ci si annoia un po'.



Gli Opia sono un trio australiano freschi di debutto discografico con EON...e indovinate un po'...sono proprio come vi aspettereste che suoni oggi un gruppo rock alternativo australiano. La descrizione che calza di più per loro è come ascoltare un mix tra COG e Dead Letter Circus. Provare per credere.



Se seguite questo blog sapete bene chi sono i Bent Knee (che, ricordo, hanno il nuovo album in arrivo a maggio). Il loro chitarrista, tra le altre cose, è anche il leader del Ben Levin Group, un side project che ospita Courtney Swain alla voce e Chris Baum al violino (sempre dai Bent Knee) e che prevede ben due nuove pubblicazioni nel corso di questo anno. Nel frattempo consiglierei l'ascolto dell'ultima fatica del gruppo, Freak Machine, un concept album uscito un anno fa e composto di quattro movimenti e mezzo in una formula leggermente più estrema dei Bent Knee, che spaziano dal rock sperimentale avant-garde al prog, dal cabaret zappiano alla classica.


giovedì 11 febbraio 2016

Motorpsycho - Here Be Monsters (2016)


Dopo The Death Defying Unicorn (2012) e En Konsert for Folk Flest (2015), Here Be Monsters segna la terza collaborazione su disco tra il rinomato trio di Trondheim e il tastierista d'impostazione classica, ma imprestato al rock, Ståle Storløkken. Come i due predecessori, anche quest'ultima opera dei Motorpsycho prende le mosse da un lavoro su commissione, composto nel novembre 2014 per celebrare il centennale del Norwegian Technical Museum. Il materiale fu eseguito dal vivo una sola volta e, dati gli impegni, Storløkken non poté dedicarsi con il gruppo a lavorare per realizzarne un album. Ecco spiegato quindi perché Storløkken questa volta non condivide il nome in copertina, dato che i tre Motorpsycho sono tornati sul progetto e lo hanno trasformato in un nuovo capitolo discografico del gruppo, affidando le parti di tastiera a Thomas Henriksen che ha anche co-prodotto l'album insieme alla band.

A parte le brevissime sonatine per piano Sleepwalking e Sleepwalking Again (ognuna di cinquattasette secondi), Here Be Monsters consta di cinque brani di cui uno è la cover di Spin, Spin, Spin: un vecchio pezzo di folk psichedelico scritto da Terry Callier per gli H.P. Lovecraft (e incluso nel loro secondo album del 1968) che i Motorpsycho avevano da molto tempo intenzione di reintepretare, mantenendolo comunque abbastanza fedele all'originale. Il fatto che questa canzone, oltre ad essere una cover, è stata scelta anche come singolo, ci fa intuire che gli altri pezzi rimanenti siano, come al solito, delle lunghe cavalcate rock nella tradizione del gruppo, cosa che puntualmente avviene.

Dopo ventisette anni di onorata carriera (celebrata lo scorso anno con un libro, la prima compilation antologica della loro storia e una retrospettiva al museo Rockheim), i Motorpsycho si sono costruiti una reputazione tale che ad ogni nuova uscita corrisponde l'attesa per quale direzione potrebbe imboccare la loro musica. Negli ultimi tempi comunque, a parte qualche rara eccezione, si sono dedicati ad un rock massicccio, psichedelico e anche un po' stoner, copione che viene rispettato in parte anche su Here Be Monsters. Da questo lato possiamo rintracciare I.M.S., un pezzo spedito e ritmato, ma poco incisivo e che pare una outtake dalle sessioni di Black Hole/Blank Canvas. Poi c'è il tour de force Big Black Dog: quasi diciotto minuti posti nel finale. Il movimento iniziale non potrebbe essere più ammaliante fatto di chitarre arpeggiate, polifonie che si aggiungono mano a mano che il pezzo prende forma e un tocco di mellotron. Dopo l'introduzione irrompe un groove heavy dai toni cupi, che bene o male non ci lascerà per tutta la durata, al quale il gruppo affianca voci dal carattere epico e messianico e momenti intensamente crimsoniani.

L'altra faccia dell'album ci mostra che nella band è ancora saldamente presente l'influsso della psichedelia sixties West Coast, soprattutto nella strumentale e suggestiva Running with Scissors, con accompagnamento di chitarra acustica, piano e chitarra elettrici a mescolare suoni pastello che riverberano un caldo sole estivo. Questo sole lo troviamo metaforicamente al tramonto nella speculare e suadente Lacuna/Sunrise, una lenta e atmosferica elegia floydiana con tanto di groove centrale per fare spazio alla solita improvvisazione lisergica. I Motorpsycho in fondo sono rimasti dei California Dreamin' norvegesi dai tempi di Let Them Eat Cake e Phanerothyme. Alla fine Here Be Monsters si culla tra questi due aspetti che ormai, credo, i tre abbiano scandagliato abbastanza, servendosi di brani però non sempre incisivi o in grado di lasciare un segnale che faccia prevedere qualcosa di nuovo nell'orizzonte del gruppo.      


Motorpsycho - Spin, Spin, Spin from Motorpsycho on Vimeo.

mercoledì 10 febbraio 2016

Aureole - Spinal Reflex (2015)


Aureole è un sestetto di art rock giapponese nato nel 2007 con tre album alle spalle e il quarto, il qui presente Spinal Reflex, che risale allo scorso anno. La base di partenza degli Aureole rimane il pop rock che però, come per molte band europee tipo Mew, Grammatics, Radiohead e Sigur Ros alle quali gli Aureole sembrano ispirarsi, si tinge di esotismi elettronici, ambient, minimalismo e prog, dove la differenza la fa l'uso molto presente di strumenti come vibrafono, glockenspiel, flauto e molta enfasi affidata alla sezione ritmica. Tenendo conto che il secondo album Imaginary Truth (che potete ascoltare più in basso) era già un buono spunto per farsi un'idea del loro rock dolce ma ravvivato da elementi sperimentali, Spinal Reflex è forse l'abum più indicativo e compiuto per il gruppo, il quale dispiega le sue peculiarità e cerca di spingerle ai limiti. Anche se qualche volta gli Aureole diventano un po' troppo compiaciuti e artificiosi per il solo gusto di esserlo (un denominatore comune a molte band giapponesi devo dire) penso valga la pena dargli un ascolto.






http://aureolemusic.net/

martedì 9 febbraio 2016

VIII Strada - Babylon (2015)


Già nel 2008, all'uscita dell'esordio La Leggenda Della Grande Porta, scrissi su Wonderous Stories di quanto fosse convincente e maturo quell'album, non solo per ciò che riguardava l'ambito prog metal, e di come i milanesi VIII Strada potessero tenere testa a produzioni internazionali ben più pubblicizzate e blasonate. Speravo che una seconda prova di conferma arrivasse a stretto giro e invece ci sono voluti ben sette anni per arrivare a questo Babylon che vede nella line-up originale solo il cambio di guardia nel basso (Sergio Merlino) e nella chitarra (Daniele Zigliani), mentre i membri originali Tito Vizzuso (voce), Riccardo Preda (batteria) e Silvano Negrinelli (tastiere) sono ancora ai loro posti. Niente di male ad aver aspettato così a lungo comunque, Babylon, credo, abbia avuto modo così di crescere in modo differente dal suo predecessore proprio per questo ed è un bene che gli VIII Strada non si siano ripetuti.

In pratica Babylon opera una nuova scelta stilistica interessante, partendo sempre dal prog metal che caratterizzava la band: al disco questa volta si aggiunge un sapore sinfonico mediterraneo tipico del rock progressivo italiano (molto efficace questa sintesi nella fusion barocca di Preludio e Eclypse e nei classicismi di Deguello), sia nel cantato di Vizzuso sia nelle ouverture strumentali, che raggiungono un buon livello di melodrammaticità nella lunga title-track. Queste peculiarità, che in un certo senso attenuano le tinte forti del lato metal, fanno in modo che il lavoro possa essere apprezzato con maggior facilità anche da chi non è solito accostarsi a questo genere, poiché brani come 1403 Storia di Firenze o Eclipse Anulaire, beneficiano di melodie più accessibili. 

Babylon viene inoltre presentato come un concept album il cui soggetto "è un viaggio nella mente del protagonista che, calato in un tempo-senza-tempo, racconta sentimenti e pulsioni dell’animo umano; è la storia di una coppia tra conflitti, confronti, passioni e progetti". Il che lo porta ad avventurarsi anche in tipici modelli da progressive in brani ad ampio respiro come Ombre Cinesi, la già citata title-track, Slow, dove il gruppo ha la possibilità di sperimentare cambi tematici e solismi che raccolgono incursioni e richiami a musica jazz, classica e teatrale. Anche questa volta la produzione e la realizzazione sono ben curati, facendo di Babylon un album omogeneo nei contenuti e solido negli arrangiamenti, sempre attenti ad equilibrare prog metal e rock melodico.



www.ottavastrada.com

domenica 7 febbraio 2016

Stimpy Lockjaw - Stimpy Lockjaw (2014)


All'interno della quantità di musica in cui ogni anno cerco di districarmi è possibile che qualcosa sfugga. Non essendo un fan del tipo di prog metal estremo che propongono gli Ever Forthright, ho in ritardo appreso invece di questo pregevolissimo progetto collaterale, chiamato Stimpy Lockjaw, messo in piedi dal chitarrista Nick Llerandi e dal tastierista Kevin Theodore insieme a Zach Marks (batteria) e Steve Jenkins (basso), tutti musicisti di uno spessore inaudito. In questo caso le cose si fanno molto più interessanti, sempre mantenendo comunque una piega estrema, ma in altro ambito. I quattro ci deliziano con 42 minuti (nella forma e concezione più vicini al lungo EP che ad un album vero e proprio) di post jazzcore al quale si aggiungono a vari livelli sfumature di djent, metal e prog in modo talmente denso e obliquo da non lasciare indifferenti.

Come una versione più oscura, ma sempre implacabilmente complessa, del trio prog fusion Scott McGill, Michael Manring e Vic Stevens o degli Exivious, gli Stimpy Lockjaw si immaginano come potrebbe essere un tipo di jazz che possa piacere anche ai metalheads. Con qualche apparizione vocale di Cara Minichiello e del sax di Colin Gordon, l'impianto è altrimenti strettamente riservato ai quattro musicisti che si sbizzarriscono in dinamiche virtuose, un momento lente e l'altro frenetiche, ampio utilizzo di dissonanze e controtempi e una complessità esecutiva ricercata consapevolmente. Non si pensi comunque ad un album impenetrabile, anzi, un ascoltatore prog smaliziato può trovare anche di che divertirsi: Asteroids è un pezzo di classe elevatissima (per certificarlo basterebbero solo gli ultimi quattro minuti in una totalità di undici) e Robo, Shrimpy e Third Eye sono altrettanto tecnici e viscerali, mentre i quattro si sfidano sezionando e decostruendo le armonie.




Se vi interessa c'è anche un album da solista di Nick Llerandi uscito lo scorso anno, sempre in ambito fusion, ma più teso verso l'improvvisazione.

sabato 6 febbraio 2016

Roller Trio - Fracture (2014)


James Mainwaring (sassofono),  Luke Reddin-Williams (batteria) e Luke Wynter (chitarra e basso) sono i Roller Trio e arrivano da Leeds. Hanno prodotto due album incredibili di jazz rock, lo scorso anno sono andati in tour con i Django Django e pochi giorni fa hanno annunciato di aver cominciato un'altra band. Comunque andiamo con ordine: dopo aver raccolto consensi grazie al primo omonimo album pubblicato nel 2012, i Roller Trio convincono di nuovo e fanno il bis con Fracture, uscito a fine 2014. Oltre a ciò non hanno avuto timore di pubblicare Live in Rotterdam, ovvero la registrazione della finale European Jazz Competition, dove il temerario James Mainwaring si è esibito suonando con la sola mano sinistra e un set scritto per l'occasione, poiché la sua destra se l'era rotta una settimana prima.

Il trio suona(va) un jazz sia sperimentale che accessibile, mostrando elementi di math rock alternativo e jazz moderno. Con la batteria che si rivolge a entrambi gli strumenti, facendo da collante per i due linguaggi musicali. Anche se l'accoppiata chitarra e sassofono farebbe pensare più ad una fusion ordinaria, in realtà le ritmiche in continua evoluzione e i pattern di chitarra sono propri del rock alternativo e il sassofono (tenore o soprano a seconda del bisogno) dell'ottimo Mainwaring si presta a sperimentazioni sonore, virtuosismi mai esibiti e manipolazioni elettroniche. Fracture è un disco dalle molte sfaccettature, che solo superficialmente può essere relegato al jazz tout court. Le sue asprezze, le improvvisazioni, sempre in bilico tra dissonanza e melodia, le stratificazioni ambient e i riff all'unisono tra sax e chitarra possiedono molti contatti con il rock alternativo e il progressive.

Un consiglio: se in qualche modo i Roller Trio vi convincono non fermatevi a Fracture, ma ascoltate anche Roller Trio che si può reperire su Soundcloud. Se poi volete proseguire, la band che i tre hanno appena fondato, con l'aggiunta del quarto elemento Matias Reed alla chitarra, si chiama RIB e suona un math pop più nella norma, con Mainwaring che abbandona il sassofono per cantare e imbracciare la chitarra.



http://rollertrio.com/

giovedì 4 febbraio 2016

Field Music - Commontime (2016)


Probabilmente ci vuole del tempo anche per ideare musica all'apparenza più disimpegnata del progressive rock. I Field Music, tra un album e l'altro, si prendono sempre tutto il tempo necessario per scrivere delle canzoni pop rock più perfette possibili  e dalla natura intrinsecamente intellettuale. Questa volta i fratelli Brewis hanno atteso quattro anni per arrivare a Commontime. Non che nel frattempo se ne siano stati con le mani in mano: oltre a dedicarsi ad altri progetti musicali - David nel 2014 è tornato al suo School of Language, mentre Peter ha pubblicato un album in collaborazione con Paul Smith dei Maximo Park - l'attesa intercorsa tra Plumb e Commontime è stata mitigata da due uscite atipiche come la raccolta di cover Field Music Play... (2012) e la colonna sonora su commissione (completamente strumentatale) per un documentario, Music for Drifters, pubblicata l'anno scorso in occasione del Record Store Day.

L'impressione è che questa volta, per quanto possa essere strana come affermazione da attribuire ad una band come i Field Music, con Commontime i due abbiano realizzato il loro album più accessibile e immediato dai tempi di Tones of Town. Se Field Music (Measure) era una sfaccettata architettura di art rock multistratificato e Plumb una collezione di melodie orecchiabili in forma di suite, Commontime è un riepilogo di carriera che smussa le invenzioni e si distende su suoni già collaudati, anche se alle canzoni manca un po' di quella solarità propria del gruppo. Certo, le solite ritmiche cadenzate, le polifonie vocali e le melodie piacevoli trasmettono ancora quel senso di spensieratezza presente in ogni brano, però forse è lo strano ripetersi di groove funky abbinati a bordoni di basso che, alla lunga, rende il tutto meno "luminoso", come le leggere dissonanze che scaturiscono da But Not for You e I'm Glad e dalla sinfonia notturna in crescendo di Trouble at the Lights.

Tutto l'album si sviluppa sulla falsariga delle prime due canzoni, il che non vuol dire che sia tutto uguale, ma che si mantiene su una linea stilistica abbastanza uniforme, metaforizzato dal riff mono-nota di The Noisy Days Are Over e l'upbeat dance di Disappointed. Curando ogni dettaglio e levigando i pezzi con attenzione quasi maniacale, i Field Music si avvicinano questa volta all'austerità produttiva degli Steely Dan (Same Name) e alla maestria stravagante del "Wizard-True Star" Todd Rundgren (It's a Good Thing, They Want You to Remember), piuttosto che agli XTC, gruppo al quale i due vengono spesso e volentieri paragonati. I punti più godibili si raggiungono proprio in questi momenti che rispolverano per un attimo sprazzi di post pop retrò che se la giocano bene come Stay Awake, How Should I Know If You've Changed? e Indeed It Is. Commontime rimane comunque un album non del tutto messo a fuoco per un gruppo che quasi mai nei suoi lavori ha sbagliato la giusta dose di ricetta per un pop intelligente e maturo.

mercoledì 3 febbraio 2016

Agent Fresco e Caspian live on KEXP

Gli Agent Fresco e i Caspian, band che hanno pubblicato due tra gli album migliori dello 2015, si sono cimentate in una sessione live per la radio KEXP. Penso si possa rimanere ben impressionati da come riescano a mantenere l'energia e le complesse sonorità riprodotte negli album, oltre a rappresentare un saggio di come oggi la musica post rock o post prog viva di una creatività troppo spesso ignorata.

martedì 2 febbraio 2016

Dream Theater - The Astonishing (2016)


Solo i Dream Theater si sarebbero potuti permettere di azzardare tanto. Con molto coraggio e determinazione si sono ripresentati dopo quasi due anni e mezzo dall'ultimo lavoro in studio con The Astonishing, un gigantesco concept album di 130 minuti diviso in due CD che, più che un'opera rock, sembra voler essere una sfida (o provocazione) nei confronti del panorama musicale odierno. Si sa che l'ambizione non è mai mancata al quintetto, ma questa volta ha voluto esagerare su tutti gli aspetti. L'idea sarebbe anche interessante: porre al centro della storia un futuro distopico posizionato temporalmente nel 2258 dove ha preso il sopravvento una malvagia dittatura paramilitare che, tra le altre cose, l'unica forma di musica conosciuta è divenuta artificiale e prodotta da droni chiamati NOMACS. All'imperatore in comando Nafaryus si oppone un gruppo di ribelli guidati dai fratelli Aryhs e Gabriel, il quale dovrebbe essere il classico "prescelto" che porta con sé l'abilità di suonare e quindi di far ricordare all'umanità la perduta bellezza del suono dal calore umano. Del nostro eroe si innamorerà inevitabilmente la figlia dell'imperatore, Faythe.

Sulla realizzazione di The Astonishing però si trovano significati dai caratteri contrastanti. In un'epoca dove l'accumulo di informazioni, lo schiavismo del multitasking e la funzione degenerata da non sottovalutare del tasto "skip" stanno facendo effettivamente perdere l'abitudine nel metodo di fruizione della musica, i Dream Theater non hanno paura di confrontarsi con il pubblico, presentando un'opera debordante che richiede tempo e attenzione e, proprio per questo, preventivamente fuori moda nella sua veste passatista, ma in senso positivo.

L'altro lato della medaglia è che i Dream Theater non colgono questa occasione per cercare di aggiungere qualcosa di imprevedibile alla loro ormai troppo immutabile discografia, ma fanno esattamente ciò che ci si aspetterebbe da loro, spingendo sull'acceleratore della magniloquenza esecutiva fine a se stessa, portando dentro un'orchestra e un coro (diretti da David Campbell) e adattando il complesso prog metal ad arie da musical di Broadway per una messa in scena da saga fantasy con produzione Disney. In pratica si rispolvera tutta l'ambiziosa caricatura con la quale il progressive rock è stato deriso e ghettizzato per anni. Allora è ovvio che l'opera di riferimento a cui bisogna tornare a guardare un attimo è l'altro concept-pietra-miliare del gruppo di ben più alto spessore, Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory, con il quale i Dream Theater si erano già tolti tutte le soddisfazioni di questo mondo. Tanto quest'ultimo era presentato in una veste seriosa, compatta ed elettrizzante  - e che più si confaceva all'indole originaria della band -, quanto The Astonishing appare artefatto, spersonalizzato e confusionario.

Un album dai valori opposti quindi che, se da una parte può essere ritenuto audace per come è stato concepito e inserito nell'attuale contesto storico/culturale tendente a spersonalizzare la funzione della musica, dall'altra si può descrivere come un campionario di cliché e luoghi comuni sul progressive rock (o metal) che di certo non fanno affatto bene al genere e lo riportano indietro agli anni in cui veniva sbeffeggiato proprio per le peculiarità che i Dream Theater mettono alla luce. Come affrontare quindi The Astonishing? Standone alla larga o elogiarlo come opera grandiosa? Questa volta la verità non sta nel mezzo. Per quanto mi riguarda basterebbe questo esempio: se un amico mi chiedesse qualcosa da ascoltare per farsi un'idea sul progressive contemporaneo non gli presenterei mai e poi mai The Astonishing per paura di traumatizzarlo, anche se incredibilmente esso corrisponde alla definizione più usuale e corrente di prog.

Ma la scelta di dare alle stampe un album dai connotati così temerari sembra tirare in ballo anche un altro fattore più sottile e cioè quello di far ridestare l'interesse verso una band che, da quando - due album fa - ha perso una delle sue colonne portanti (Mike Portnoy), correva il rischio di trascinarsi lentamente nell'oblio. Quindi penso ci sia anche del metodo in quest'operazione estrema, inventandosi un progetto con la capacità di scuotere le opinioni grazie a connotati ambiziosi e dai contorni epici, tanto che la strategia pare abbia proprio funzionato visto che ne stanno scrivendo proprio tutti, anche chi di solito non si interessa di progressive rock.



Il concept è stato ideato e sviluppato da John Petrucci con la finalità di essere anche trasposto in altri media come teatro, cinema e video game, mentre la maggior parte della scrittura musicale è opera del chitarrista e del fido tastierista Jordan Rudess che, avendo coro e orchestra a rivestire parte delle sue veci, si dedica principalmente al piano acustico ed è colui che si prende maggior spazio, dato che i suoi arpeggi costituiscono le fondamenta sulle quali i brani si sviluppano. Petrucci, dopo l'encomiabile impegno di aver scritto storia e musica, mette da parte la fantasia e imbraccia la chitarra suonando col pilota automatico, ma c'è da dire non smania mai per primeggiare. Da parte sua James LaBrie ha accolto la sfida non facile di interpretare vocalmente tutti gli otto personaggi principali previsti dalla storia, anche se talvolta non fa altro che inventarsi dei toni gravi e moderarsi nei suoi striduli acuti. Il più penalizzato dei cinque sembra essere il povero Mike Mangini, dato che, paradossalmente, in una storia che mette al centro l'importanza della musica umana, il suono del suo strumento esce fuori molto spesso come fosse quello di una batteria programmata.

La prima notizia però è che, nell'enorme spazio temporale in cui si dipanano i due CD, non è presente alcuna suite multiforme, un vezzo ormai che assurge a marchio di fabbrica per la band, con il brano più lungo che arriva "solo" a sfiorare gli otto minuti. In realtà i pezzi sono abbastanza contenuti al fine di suddividere meglio i capitoli e le azioni della storia e la musica fa volentieri ricorso ad atmosfere teatrali come mai era accaduto prima in un album dei Dream Theater - con pezzi come Lord Nafaryus e Three Days -, arrivando agli stessi risultati dei The Dear Hunter nei loro album Act I-IV. Con la differenza che per questi ultimi il rischio di mostrarsi pomposi è scampato dalla soluzione di non associarsi al prog metal. Il problema di The Astonishing risiede anche in tale aspetto, dato che su tutto l'album aleggia una pesante sensazione di musical muscolare e supereroistico, con accostamenti stilistici che più di una volta appaiono forzati e pacchiani.

Il primo CD è tutto un altalenarsi tra ballate pianistiche stucchevoli e sdolcinate tipo When Your Time Has Come, Act of Faythe, Chosen e momenti che sfoggiano smisurati propositi da "musica visiva", "operatica" e "cinematica" (The Road to Revolution, A Tempting Offer, A Savior in the Square e Brother, Can You Hear Me?, una specie di Bring the Boys Back Home insensatamente tirata per le lunghe). Non tutto si riduce a questo se si contano The Gift of Music, A Better Life e qualche spunto strumentale da A New Beginning, fino all'intro desueto di A Life Left Behind (che pare spuntato fuori da Drama degli Yes), ovvero dei brani che funzionano meglio quando l'ibrido da operetta metal viene meno accentuato. 

La seconda parte è, se possibile, ancora più incisiva nel sottolineare ed estremizzare i caratteri riassunti dalle righe precedenti, affidandosi però ad una scrittura decisamente meno ispirata e poco incisiva, a parte per la funambolica Moment of Betrayal. Abbiamo il prog metal operistico di The Path That Divides, The Last Farewell e The Walking Shadow, accanto alle melodrammatiche Begin Again e Losing Faythe, talmente prevedibili nel loro indigesto romanticismo da sfiorare il kitsch neomelodico. Poi troviamo cose incomprensibilmente pleonastiche come il richiamo a Is There Anybody Out There? su Haeven's Cove (ma che bisogno c'era? Era tanto difficile inventarsi un arpeggio e un arrangiamento inediti?) e la power ballad più che ordinaria Our New World che qui pare fuori contesto e per un attimo ci fa dimenticare di essere all'interno di un musical ipertrofico. Ma a ricordarcelo arriva con tutta la sua potenza implosiva l'ultima traccia Astonishing: un distillato di soundtrack da scena finale trionfale, cori ecclesiastici e fanfare militaresche. Purtroppo non ci sono termini più appropriati di "progressive rock" o "opera rock" che si adattino a The Astonoshing, ma nel senso più retrogrado e stereotipato che ci possa essere. Nel migliore dei casi avrete una melliflua e ciclopica opera rock, nel peggiore una parodia suonata da dio del "training montage" di Rocky IV.

lunedì 1 febbraio 2016

School of Seven Bells - SVIIB (2016)


La storia di SVIIB, ultimo album (in ogni senso) degli School of Seven Bells, inizia nell'estate 2012 immediatamente dopo l'uscita del terzo lavoro in studio Ghostory. Il duo Benjamin Curtis e Alejandra Deheza si rimette subito in moto a scrivere del nuovo materiale per l'ipotetico quarto album, ma nel febbraio 2013 a Curtis viene diagnosticato un linfoma linfoblastico che lo porterà alla morte di lì alla fine dell'anno. L'amica e compagna Deheza, distrutta dal dolore, non è riuscita comprensibilmente a ritornare su quelle canzoni ancora incomplete per molto tempo, subendo quasi un blocco artistico e psicologico. Con l'aiuto della sorella Claudia (che aveva lasciato il gruppo all'indomani del secondo album) e del produttore Justin Meldal-Johnsen (Beck, Nine Inch Nails, Paramore, M83), Alejandra è riuscita lentamente a tornare alla normalità e riprendere in pugno il lavoro interrotto che oggi vede finalmente la luce (in uscita il 26 febbraio) come l'ultimo suggello degli School of Seven Bells a distanza di quattro anni esatti da Ghostory.

Lasciando da parte l'electro pop sperimentale e psichedelico di Alpinisms (2008) e Disconnect from Desire (2010), SVIIB continua sul solco di Ghostory verso un'indietronica più di maniera e portata agli standard di ciò che, durante l'assenza dalle scene musicali degli SOSB, è diventata una scelta di tendenza. A tal proposito, il paragone con i CHVRCHES è quasi pertinente se non fosse che le gemelle Deheza insieme a Curtis si destreggiavano con i sintetizzatori e le drum machine già qualche anno prima di loro e di molti altri. In tale ambito SVIIB si riprende il primato di album elctro-dream-pop perfetto, riuscendo dove Ghostory aveva fallito e cioè liberarsi degli aspetti più spigolosi dei primi due lavori per abbracciare senza vergogna scelte melodiche dirette e senza compromessi. Quest'opera, a metà strada tra il postumo e l'atto di affermazione in vita, lo fa con nove tracce di una lucidità sorprendente, quasi da non sembrare il dolente capitolo conclusivo di un progetto, ma una celebrazione di future possibilità tutte da scoprire.

Su Ablaze e On My Heart la Deheza canta dell'amicizia e della relazione con Curtis con la sua voce soave, riverberata, raddoppiata e come in un gioco di specchi ci accompagna in atmosfere che mescolano i freddi bordoni di sintetizzatori e i beat elettronici a strati di suoni talmente dolci che l'appellativo di dance, come sempre, appare limitativo e superficiale. Prova ulteriore è la ballad Open Your Eyes, arricchita da un chorus celestiale e da impasti sonori debitori dello shoegaze per quanto creano un'atmosfera onirica.



Ma quando pensi che l'apice di tutto il disco possa essere con molta probabilità Open Your Eyes, ecco arrivare Elias, assolutamente incantevole nella sua veste solenne da dream pop elegiaco, anticipato con la nota aggiuntiva di A Thousand Times More che riescono insieme a spiegare meglio come, se lo shoegaze fosse creato con synth, sequencer anziché con spirali di chitarre distorte, avrebbe pari potenza suggestiva. E si continua con Signals, un upbeat cantato in modo sincopato, si procede col psych rave spaziale dalle cadenze raga Music Takes Me senza che l'album abbia un attimo di cedimento. L'atmosferica Confusion possiede note prolungate di synth e la sue calma estatica si rifà alle colonne sonore di Angelo Badalamenti e ai sogni più sperimentali dei Cocteau Twins i cui artifizi sonori tornano nella conclusiva This is Our Time.

Prima di lasciarci Curtis ha fatto in tempo a mettere il proprio contributo su SVIIB, poi per la Deheza il lavoro successivo ha imboccato inevitabilmente una direzione più personale e Meldal-Johnsen ha operato in modo rimarchevole nell'edificazione e ritaglio di suoni vertiginosamente stratificati e contagiosi. Difficile oggi immaginare un album di dream pop più perfetto e senza sbavature di SVIIB, dato che possiede tutto ciò che serve per nobilitare l'electro pop verso lidi che lo conducono a risultati eccellenti: melodia, accessibilità e sperimentazione.



www.sviib.com