mercoledì 30 settembre 2015

Quiet Child - The Ever Present Shadow (2015)

 
Quando a maggio vi parlai di Peter Spiker a.k.a. Quiet Child ancora non sapevo che avesse in cantiere un altro album, ma qualche mese dopo, quando annunciò questa nuova uscita, la cosa non mi sorprese più di tanto vista la prolifica vena del ragazzo australiano. Quindi ecco The Ever Present Shadow, che lo stesso Spiker ha presentato come un album più pesante del precedente, seconda opera del 2015 che è un po' più ruvido e spigoloso in effetti, ma non si discosta molto ad esempio dal metal spaziale di Chapter and Verse del 2014.
 
Non vi fate intimidire dalle bordate thrash che si affacciano prepotenti più che mai a partire da A Good Plan, dato che a Spiker piace stupire con accostamenti arditi posizionando sempre sottostrati di melodia e intricate parti progressive. Ciò che più convince di Spiker è la sua voce che, anche se con il suo registro alto e dolce assomiglia ad un incrocio tra Thom Yorke e Jeff Buckley, non sfigura affatto sepolta sotto gli strati di distorsione metal.     
 

martedì 29 settembre 2015

CASPIAN - Dust and Disquiet (2015)


Ascoltando Dust and Disquiet, quarto album in studio del sestetto statunitense Caspian, si ha la piacevole sensazione che il post rock possa regalare ancora grandi emozioni, cosa che, almeno personalmente parlando, capita sempre più di rado. Passati appena due anni dalla dolorosa scomparsa del bassista Chris Friedrich, la band torna con un album che segue i successi di critica ottenuti con Waking Season (2012) e l'EP Hymn For The Greatest Generation (2013). Dust and Disquiet diventa quindi un passo storico per i Caspian: non solo il primo lavoro senza Friedrich, ma anche un'opera dove la sua assenza ha inevitabilmente influenzato la "narrazione" musicale, dando nuova linfa al loro sound strumentale.

Con il sussurro di Separation No.2, che si unisce idealmente alla meditabonda pacatezza di Rioseco, l'album si assicura di preparare il terreno al dispiegamento di forze Arcs of Command, ricolma di vortici elettrici degni dei God is an Astronaut, e soprattutto Echo and Abyss, uno dei pezzi post rock meglio concepiti degli ultimi tempi: un inizio strumentale hard psichedelico dove si innestano delle liriche scandite come in trance, perfettamente funzionali nell'accrescere l'atmosfera ossessiva che sale a dismisura nel finale. Non che non sia mai capitato, ma per la prima volta in modo incisivo i Caspian usano la voce e lo fanno con ancora più coscienza nell'acustica Run Dry una ballata che, posta al centro dell'album, spezza volutamente la tensione accumulata. Giusto il tempo di riprendersi e qualche raggio di sole sembra stagliarsi dagli arpeggi pianistici di Sad Heart of Mine, subito però il cielo si nasconde nei bordoni di Darkfield con un inizio tribale che farebbe invidia ai Battles se non si fossero totalmente rincoglioniti.

Nonostante i clamori che suscitò Waking Season, Dust and Disquiet è forse l'album migliore prodotto dai Caspian sinora, un lavoro che porta dentro di sé le ferite laceranti e la voglia di ripartire, ma capace anche di rilasciare un'energia positiva usata come fosse una specie di terapia lenitiva.




http://caspianmusic.net/

mercoledì 23 settembre 2015

Caligula's Horse - Bloom (2015)


I Caligula's Horse fanno parte di quella scena australiana che ormai è diventata, più che una promessa, una certezza per il progressive metal moderno. Anche in questa sede i post dedicati ai gruppi dell'emisfero australe sono aumentati nel giro di poco tempo, basti pensare a Dead Letter Circus, Gatherer, Circles, Tweleve Foot Ninja, Chaos Divine. I Caligula's Horse sono forse i più tecnici tra i gruppi australiani che suonano prog metallico, forti dell'apporto della chitarra incontenibile di Sam Vallen, e si fecero notare due anni fa con il secondo album The Tide, The Thief & River's End che seguiva il buon esordio Moments From Ephemeral City, due lavori che se siete fan del genere sarebbero sicuramente da recuperare.

Ora, pur riconoscendone l'indubbia qualità tecnica e compositiva, devo confessare che i due dischetti mi lasciarono alquanto gelido nei loro confronti, in quanto mi parevano troppo sovraccarichi anche se non privi di ottimi momenti. Una reazione che è stata del tutto differente ascoltando Bloom, il nuovo album dei Caligula's Horse in usicta il 16 ottobre per la prima volta sotto l'etichetta InsideOut, che garantirà così al quintetto una distribuzione più capillare. Già dalla title-track che apre il disco il fatto che si passi in modo indolore da un'atmosfera raccolta e acustica ad una cavalcata epicamente metal, rappresenta un biglietto da visita notevole. Ma, a parte questo e gli intermezzi fatti di riffoni, su Marigold, Firelight e Dragonfly, i Caligula's Horse mi sembrano più misurati, più attenti alle melodie e agli intarsi di arpeggi, oltre che alle progressioni di accordi armonici che permettono a Vallen delle temerarie evoluzioni solistiche. La band tira fuori anche due anthem dal retrogusto quasi ottantiano, riveduti e corretti per i nostri tempi, come Rust e Turntail. Insomma, se non li avete mai ascoltati questa potrà essere la migliore introduzione, se invece li conoscete già probabilmente Bloom non vi deluderà.


http://caligulashorse.com/

sabato 19 settembre 2015

TESSERACT - Polaris (2015)


Con due album e un EP alle spalle, i TesseracT hanno già una travagliatissima storia per quanto riguarda i cantanti. L'ultimo colpo di scena è arrivato insieme alla notizia di un terzo album in cantiere con il clamoroso, quanto inaspettato, ritorno del figliol prodigo Daniel Tompkins a riprendersi il suo posto dietro al microfono (il quale questa volta deve essere più convinto e motivato nel restare dato che ha di recente lasciato gli Skyharbor). Tompkins era colui che aggiunse le sue doti vocali ai soundscapes metallici e psichedelici messi in atto dai TesseracT nel loro esordio One, diventato poi uno dei primi capisaldi del cosiddetto movimento djent. Dopo di Tompkins arrivarono, in ordine di tempo, Elliot Coleman (che abbandonò per motivi logistici in quanto statunitense) seguito da Ashe O'Hara con il quale la band ha realizzato l'insipido secondo album Altered State.

E questo è il motivo per cui mi sono avvicinato a Polaris con dei forti pregiudizi che però sono stati spazzati via, se non al primo, sicuramente al secondo ascolto. Intanto la nota gradita è che i TesseracT e Tompkins hanno deciso di non ricorrere ai growl che erano parte integrante di One e che già con Coleman e O'Hara erano scomparsi. Poi si sarà notato come la musica della band possa vivere di vita propria in due distinti formati: quello strumentale e quello cantato. Mai come in questa occasione penso che si possa godere dei tappeti strumentali che si dispiegano ai piedi delle corde vocali di Tompkins. Quella di Polaris è una specie di new age metal che affascina, si trasforma e cresce, attraversando vari umori. E così ogni brano procede e prende forma in modo inaspettato, con cambi tematici non propriamente repentini, ma naturali. Le sonorità elastiche delle chitarre di Kahney e Monteith e il basso di WIlliams, insieme alla batteria geometrica di Postones, danno vita a degli impasti gelidi eppure coinvolgenti. Tompkins dal canto suo (scusate il gioco di parole) non aggiunge nulla di quanto già abbia fatto lo scorso anno con Skyharbor e Piano, tra l'altro in modo egregio, e scusate se è poco.

 

giovedì 3 settembre 2015

THE DEAR HUNTER - Act IV: Rebirth in Reprise (2015)

 
Riassunto delle puntate precedenti: Casey Crescenzo pubblica tre album di seguito a nome di The Dear Hunter, tra il 2006 e il 2009, facenti parte di una saga di sei capitoli ambientata a cavallo tra il XIX e il XX secolo, narrando le vicende di un ragazzo senza nome. La musica è altamente ambiziosa, molto incline alla teatralità, al sinfonismo e a tutto quel crogiuolo di musiche che si mischiavano in America alla fine dell'800: ragtime, blues, gospel e jazz. Non mancano richiami a Beach Boys, Beatles, The Mars Volta e post hardcore...insomma, una nuova ed eccitante costola del rock progressivo più stimolante.

Una volta completati i tre capitoli Crescenzo decide che per il momento può bastare e si dedica, sempre con la band, ad altri progetti slegati dalla saga: una raccolta di 9 EP dal titolo The Color Spectrum, un album di canzoni (Migrant) e addirittura una sinfonia in quattro movimenti registrata con una vera orchestra. Dopo queste deviazioni siamo arrivati ad oggi, quando finalmente Crescenzo ha deciso di riprendere il filo della storia della sua saga a sei anni di distanza dal terzo capitolo. Per il loro ritorno i The Dear Hunter hanno pensato bene di accontentare quei molti fan che aspettavano con impazienza Act IV, come per saziare il lungo periodo di attesa, proponendo la bellezza di quasi 75 minuti di musica nei quali Crescenzo non risparmia nulla.

Per capire quale impostazione ha dato Crescenzo a Act IV: Rebirth in Reprise si potrebbe fare riferimento ad un suo vecchio tweet lanciato a maggio nel quale bramava la stessa maestria di scrittura di Jeff Lynne, meglio noto come il leader degli Electric Light Orchestra. Bene, se conoscete un po' gli Electric Light Orchestra forse saprete che non furono dei campioni di sobrietà - portabandiera di un baroque pop inclusivo di orchestrazioni melense e ritornelli a presa rapida che si sposavano con sintetizzatori e cori alla Queen - , i cui tardi lavori fecero proseliti anche in ambito discomusic.



Ciò che ha fatto Crescenzo è di catalogare le melodie più operistiche dei primi tre atti, confrontarle con il cantautorato barocco "post Acts" e immergerle in un calderone di melassa, caramello e glucosio. Insomma, dopo aver provato le potenzialità di un'orchestra, Crescenzo ci deve aver preso gusto e ha incorporato in queste 15 tracce quello che non ha potuto sfogare su Migrant. Tre canzoni come Wave, The Line e Wait sembrano, ad esempio, maggiormente legate all'ultimo periodo dei The Dear Hunter, più "semplicistico", che non alle meccaniche convulse degli Act.

Altrimenti Act IV è un concentrato di melodie, non necessariamente memorabili, nelle quali non vi è un angolo in cui non brillino strumenti orchestrali: ogni piccolo spazio o anfratto dell'album è occupato da polifonie vocali, archi che sfregano corde, fiati che soffiano negli ottoni e nei legni. Con l'ausilio dei ragazzi della Awesöme Orchestra, i The Dear Hunter proseguono il cammino della saga mai arrivata ad apparire così sinfonica e sovraprodotta. Ai due estremi dell'ispirazione troviamo le riuscite The Old Haunt e The Squeaky Wheel, quando invece dall'altra parte At the End of the Earth e Is There Anybody Here? appaiono come lavori manierati e monocordi.

Crescenzo, come Jeff Lynne, vuole giocare a trovare melodie perfette, perfino cimentandosi in ritmiche dance da "febbre del sabato sera" come in quello che sarà sicuramente riconosciuto come il pezzo più controverso dell'album: King of Swords (Reversed). Comunque, se ascoltate con attenzione i primi tre Act, ci potete trovare già la perizia di arrangiatore di Crescenzo. Già all'epoca immaginava una musica grandiosa all'altezza della sua epopea, ma lo faceva con i mezzi che aveva a disposizione: chitarre, tastiere e cori. Su Act IV, Crescenzo fa la stessa cosa, solo che la fa più in grande, con stratagemmi più fastosi e accattivanti, senza tralasciare quei piccoli indizi o citazioni, sotto forma di temi musicali ricorrenti, che riportano direttamente ai capitoli passati.

I The Dear Hunter ad ogni modo non si ripetono, danno piuttosto una nuova impostazione alla musica, in maniera che ogni capitolo abbia una propria identità: Act I era una prova generale per Act II che scavava nella tradizione musicale americana con la scusa del prog rock, mentre Act III era il più teatrale e sposava il music hall di derivazione novecentesca. Act IV è tutto questo e ancora di più. Il chamber pop e l'opera sinfonica si intrecciano in modo interessante su Rebirth e Remebered, fino ad amalgamarsi in modo sontuoso nella mini suite A Night in the Town. Temi da big band e soundtrack da film esplodono qua e là come se suonare rock fosse ormai l'ultima preoccupazione della band. Le nuove tre parti della Bitter Suite si dipanano in sequenze da operetta e dixieland e If All Goes Well è un rock da musical che aumenta in pomposità e intrecci vocali.

Act IV trova la sua forza e la sua debolezza proprio in questa strenua ricerca della melodia: se da una parte è ricco e debordante (per certi versi anche gratificante) nelle arie da opera rock, dall'altra viene schiacciato da tanta fastosità arrangiativa, sfiorando la stucchevolezza.